Regia di Suha Arraf, Palestina – Settimana degli Autori
Commento di Rossella Valdrè
“La nostalgia (…) basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza”.
(M. Kundera)
Il mondo si è fermato, a Villa Touma, Ramallah. In un Paese di cui è fin troppo noto, e attuale, il perenne, lacerante conflitto, le tre sorelle Touma, ex-nobildonne dell’aristocrazia cristiana, sole, nubili, da almeno trent’anni non hanno più fatto oltrepassare il loro portone dal nessuno. Da quella che chiamano la guerra, riferendosi al ’67 come fosse ieri (è ieri, per loro), spartiacque insuperato della loro esistenza.
La modernità, che non è solo la guerra, l’evoluzione dei costumi, ogni aspetto della vita è rimasto fuori. Bloccato, congelato, bambole di cera nei loro abiti elegantemente superati, è il loro universo, tale è la fatica al cambiamento, la non accettazione della realtà, che ha visto occupati i territori palestinesi e la fuga in massa della nobiltà locale. La nostalgia basta a se stessa, canta il narratore. Si nutre di sé, sembra non avere altri bisogni…
Dunque, di quel mondo che tentano strenuamente di proteggere e preservare, non è rimasto pressoché nessuno. Sguardi sorpresi e divertiti le seguono, infatti, nelle loro rare uscite, come pezzi di museo, ombre, che circolano su strade martoriate, dove “la morte non si deve guardare”. Ma l’eccidio, la strage politica, è sullo sfondo, e la lascerei volutamente sullo sfondo, tanto la ferita è ancora aperta, e già se ne scrive e parla molto da ogni fonte. Mi soffermerei invece sull’altro versante, quello intimo, personale, psicologico, di questo finissimo, sensibile dramma tutto femminile, un’altra delle sorprese di questa veneziana Settimana della Critica.
La quasi esclusiva ambientazione negli interni della casa – il tavolo che scandisce rigorosamente i pasti, le fessure da cui spiare nelle camere da letto – rende assai bene l’atmosfera da claustrum, interno ed esterno, del mondo chiuso e simbiotico delle tre sorelle. Sempre unite, sempre (apparentemente, vedremo) in accordo, come legate da un cordone ombelicale indissolubilmente antico, tanto tenace quanto ambivalente. Come se la singolarità di ognuna, non esistesse. Sarà l’arrivo dell’altro, dell’alterità, a far emergere quelle singolarità che giacevano sopite, ma non spente. Ma andiamo con ordine.
Perduti i genitori, abbandonati i sogni di gioventù, sotto la maschera di una congelata nostalgia, ciascuna racchiude in sé il proprio segreto, i personali rimpianti, lutti, invidie, mondi emotivi che il nuovo arrivato poterà via via a disvelare. Quale, nuovo arrivo?
Terminato l’orfanotrofio, viene mandata dalle tre zie la nipote Badia, una normale diciottenne, ancora timida e impacciata, figlia di madre musulmana (cosa che esse, ovviamente, disprezzano) e del fratello ribelle delle tre donne. Badia, che ancora non sa nulla del mondo, è una ragazzina di oggi, e ha un solo, banale desiderio: essere ‘normale’.
Ma nel mondo-museo di Villa Touma, appena entrata le viene imposto un rigido copione, sì da trasformarsi in una signorina ‘bene’ a caccia di marito, ovviamente aristocratico, o almeno ricco, e cristiano: iniziano così giornate ridicolmente tutte uguali, scandite da lezioni di piano e di francese, di portamento e buone maniere. Giornate calate in un silenzio quasi funereo: le tre donne sono tristi, soprattutto la più anziana e severa, Juliette. E’ lei a dare ordini, sia alle altre due, sia ovviamente a Badia; è lei a decidere che, per il buon nome della famiglia (del fantasma di famiglia che si porta dentro), la ragazza deve trovar marito. Iniziano così, in questo sterile tentativo, presentazioni alle poche famiglie del loro rango rimaste, funerali, matrimoni, inviti al thè: niente da fare, Badia è obbediente, ma distratta, l’invidia della sorella di mezzo mette i bastoni tra le ruote, l’ambiente cui fanno riferimento è angusto e ristretto, e via dicendo.
Intanto, ed è l’aspetto più interessante, il cuore tematico del film, con l’arrivo di Badia inizia il lento scongelamento nelle tre donne, e tra le donne. Inizia la differenziazione, cominciano a comparire le soggettività, i singoli tratti di carattere; come quando, dopo un disgelo, si tornano a rivedere le curve di un paesaggio che prima era tutto uguale, sommerso. Antoinette, la più giovane, ha subito simpatia per l’arrivo di Badia, le consente il primo contatto umano, le prime titubanti confidenze, spera che ora, anche per loro, qualcosa cambi. Sempre dura, ostile, resterà la sorella di mezzo, che invidia a Badia un ipotetico futuro, una qualche felicità che lei non avrà più, condannata alla solitudine per sempre, imbruttita dal rancore. E Juliette, persino la glaciale Juliette, scopriamo avere un passato: anche lei, giovinetta, aveva amato, ma dovette rinunciare per badare alle altre due, per le opposizioni della famiglia, le stesse che oggi lei trasferisce su Badia. Tutte hanno dovuto rinunciare a un amore lontano, a una vita propria. Il mondo interno delle sorelle, è cioè segnato non solo dalla perdita, direi propriamente dalla rinuncia. Perciò ho parlato di un dramma, che pare di teatro ottocentesco alla Ibsen, squisitamente femminile.
Vero è che vi sono luoghi del mondo dove la cifra della rinuncia è per il femminile ancora una realtà concreta, ma proporrei di uscire dalla Palestina e universalizzarci alla realtà psichica: in questa, che è universale, il segno della rinuncia (imposta o voluta) esiste ancora. Non è esclusivo patrimonio femminile, certo, ma sullo spunto del film ne vedrei qui la declinazione, certamente più frequente e socialmente accettata (se non valorizzata) del femminile, anche contemporaneo. Piccole o grandi rinunce, parziali abbandoni di carriere, silenziose sudditanze…una costellazione psichica che non rado, anche nei nostri lettini d’analisi, troviamo segnata inconsciamente da quella che Lacan chiamava mancanza, radicalizzata nella nota provocazione:
“La femme n’ésixte pas! – La donna non esiste! –
Ma la piccola Badia sembra sottrarsi, a questo destino di totale rinuncia, di totale assenza di scelta. Da uno scambio di sguardi con un ragazzo, profugo che verrà ucciso, incontrato ad uno dei vari tentativi cui la conducono le zie, nascerà un tenero amore alla Romeo e Giulietta, con sassi alla finestra, di nascosto. Le sorelle lo intuiscono; nel breve spazio dell’innamoramento, la giovane rifiorisce, impara davvero a suonare, a sentire la musica e non a eseguire, riesce persino a toccare il cuore di Juliette, con la sua musica.
“Le regole vanno conosciute – le aveva detto una volta l’insegnante di piano – ma sono fatte per essere trasgredite”. Il giovane muore, Badia è incinta: che fare? Il loro buon nome sarà svergognato?
La realtà, ormai, ha bussato alla porta, e poi è prepotentemente entrata. Qualunque fittizia soluzione, è come se non potesse più arrestare quello che è avvenuto con l’avvento di Badia nelle mura di Villa Tomoa: la trasformazione. L’evento trasformativo: come una valanga, una volta innescato, le crepe dei cuori si sono aperti, emozioni sepolte riaffiorate. Non si torna indietro. La realtà è più forte della nostalgia.
“La vita appartiene ai viventi, diceva Goethe, e chi vive deve essere preparato ai cambiamenti”.
Sì: è la verità del film. Accettare i cambiamenti: quelli che non vorremmo, che non avremmo chiesto, che non controlliamo, che temiamo ci pongano di fronte alla nostra miseria, ad un reale che non possiamo più mascherare. Ma occorre aggiungere che:
“ (….) Naturalmente per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla”.
(P.P.Pasolini)
Amano, le tre sorelle che ormai non sono più quelle dell’inizio, nonostante gli stessi abiti, le stesse mura silenziose della Villa, gli stessi rituali, amano la loro Badia, portatrice del vento della trasformazione? Non lo sappiamo, io credo di sì: nel senso lato del termine, ne consentono la soggettività.
Certo è che, in quella casa, non saranno più sole, non regnerà più quel silenzio funereo: ecco!
Da una culla, il pianto di un neonato….