Trought the wall (Attraverso il muro)
Di Rama Burshtein – Istraele 2016
Sezione Orizzonti – In concorso
commento di Rossella Valdrè
Giudicato dalla critica internazionale (nelle poche voci trovate, essendo un film a circuito piuttosto ristretto) quasi una commedia romantica a tratti umoristici sul matrimonio, “Trought the Wall” dell’israeliana Rama Burshtein appare, invece, un film molto amaro e, pur trattandosi di un piccolo film che parla di un piccolissimo mondo, quello degli ebrei ultraortodossi, molto complesso.
La regista, evidentemente interessata al tema, si era già occupata del matrimonio nella comunità ortodossa col precedente “Fill the void” e vi torna oggi con questa singolare storia concentrata su un unico personaggio, la trentadueenne Michal. Michal, timida, discreta e religiosissima, non ha che uno scopo nella vita: sposarsi. Adepta obbediente e figlia della ristretta comunità in cui vive a Gerusalemme, Michal non avrà pace finché non adempierà a quello che è il compito destinato alla donna ebrea ultra-ortodossa, ossia sposarsi, avere figli, e ottenere così accettazione sociale, amore e un compagno per la vita. Non è nemmeno da mettersi in conto che il legame possa spezzarsi, o i bisogni mutare col tempo: il simbolo di quell’agognato anello la legherà per sempre.
Il film inizia con l’abbandono, poco prima delle nozze, del fidanzato (ovviamente anche lui un ortodosso) che, imbarazzato, le dice di non amarla: disperata, Michal da allora non cambia il giorno prefissato per le nozze (cosa che la umilierebbe di fronte a tutta la comunità) ma spera ardentemente, in quell’arco di tempo, di mantenere il patto fatto con Dio e trovare un marito. Uno qualunque, si potrebbe dire, ma paradossalmente molto specifico: Michal racchiude l’ambigua contraddizione di non desiderare solo adempiere al suo dovere di donna nella società, ma di ricevere anche amore.
Alla ripetuta domanda che in molti le fanno “che cosa vuoi?”, col suo sguardo smarrito e tenace ad un tempo, Michal risponde “amore, dare e avere amore”.
Scontro di civiltà, di valori squisitamente contemporanei (la felicità individuale) con il rispetto di regole persino un po’ grottesche all’occhio dello spettatore laico? Dramma del ruolo della donna nei gruppi ultraortodossi (in questo caso ebraico, ma forse estensibile a ogni ortodossia) che la vede relegata alla sola funzione coniugale, in un mondo che cambia e si trasforma anche nel moderno Israele?
Complesso, dicevamo, e non del tutto riuscito questo “Trought the Wall”: eccessivamente circoscritto e concentrato sulla piccola comunità e i suoi valori dà eccessivamente per scontato che lo spettatore ne conosca i retroscena e le regole per collocarlo nel giusto contesto, più interessante se si lascia a margine la religione e lo si legge, dal nostro punto di vista, come un ritratto di donna. Una donna di oggi che sembra, anche nei modi, nei gesti, negli abiti, una donna di ieri. Una donna che, pur vivendo in un ambiente che verosimilmente le somiglia, sembra la più fedele, la più ortodossa di tutte: le amiche e la stessa madre, tutte invitate al fantomatico matrimonio che tiene in sospeso la curiosità fino alla fine, sembrano più disinvolte e moderne di lei.
Michal è dunque specchio sì, di una determinata società fortemente osservante, ma anche personaggio a sé, con una sua psicologia, desideri, ansie, incertezze.
L’attesa di un marito (non il ma un marito), lasciando il prefissato giorno delle nozze, diventa il mezzo con cui Michal si mette nelle mani di Dio, l’estrema, quasi folle sua ammissione di fede: se attendo, Dio mi porterà un marito. Un marito anche per me.
La piccola comunità attorno a lei, collusivamente, non ha la forza di persuaderla, e tutti stanno al gioco, preparandosi per il matrimonio a cui, in un grottesco, surreale banchetto che è a mio avviso la scena migliore del film, si reca lei sola con le amiche, la madre e gli ospiti, vestita di bianco ma senza alcun marito al suo fianco. La vecchia favola dei vestiti nuovi dell’imperatore insegna che si vede ciò che l’altro vuole farci vedere: Michal impone il suo copione, in un clima surreale vagamente alla Bunuel, copione che manca di un fondamentale personaggio. Ma lei, tremante, si siede sola ugualmente al suo posto di sposa, e un uomo che la chiede in moglie si materializza davanti a lei. E’ Shimi, amico di recente divorziato. Da cosa è attratto Shimi? Forse dalla forza, dalla tenacia nella fede di Michal (tenacia che ha, effettivamente, in questo modo di relativismo, ha un suo fascino), forse dalla sicurezza di una donna che, diversamente dall’ex moglie che “non credeva in Dio, non voleva figli, non credeva in niente”, non lo lascerà mai.
Il sogno di Michal si realizza. Ha avuto fede, e Dio ha risposto, sembra la logica religiosa del film: abbi fede, e ti sarà dato.
Non è l’unica metafora del film. Il “muro” del titolo (che farebbe pensare subito al muro israelo-palestinese) rappresenta forse il muro di dubbi che Michal deve attraversare, il muro della sua solitudine, la sua fortezza? E la figura dell’amica handicappata, che compare ogni tanto e con cui si confida (“non sono abbastanza bella?”) è un doppio alienato, deficitario e mancante del sé a cui parla, un doppio di sé che rivela il pensarsi come ‘handicappata’ se non ha un marito? Tutto questo è lasciato in mano alla fantasia dello spettatore, essendo il film piuttosto insaturo di significati compiuti. Se questo è un tratto intrigante e narrativamente ambizioso, lo rende però, come detto all’inizio, complessivamente debole, in quanto “Trought the wall”, mescolando troppo il metaforico ad un preciso contesto religioso che andrebbe meglio conosciuto, finisce per perdere un po’ per strada quella forza che una cifra narrativa più precisa gli avrebbe conferito. (Qualcuno ricorderà che un tema analogo, ma ribaltato, era stato ben più efficacemente narrato in “Vivianne” del 2014, odissea di un’ebrea ortodossa che tenta di divorziare presso il tribunale rabbinico, con estrema forza e una formidabile cifra narrativa grottesca in chiara opposizione agli eccessi degli ortodossi e in difesa della figura femminile).
Più intrigante mi pare, invece, il versante psicologico, o anche più finemente psicoanalitico: non siamo forse noi a inventare l’oggetto? Non è forse il desiderio che allucina l’oggetto, la nostra proiezione che lo crea, lo inventa, lo distrugge? Se volgiamo rendere universale la metafora di questo piccolo film che non può limitarsi ad una comunità bigotta, non è forse ogni matrimonio, ogni amore, l’invenzione dell’altro, la sua idealizzazione?
Michal diventa allora protagonista di una metafora dell’umano, in cui, come diceva David Foster Wallace.
“Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”