The Emperor’s New Clothes (I vestiti nuovi dell’Imperatore)
Di Michael Winterbottom – Regno Unito, 2015
Documentario
Commento di Rossella Valdrè
– Il Re è nudo! –
(H. C. Andersen)
Diretto e sceneggiato da Michael Winterbottom, regista “di denuncia” già noto e acclamato per 24 Hour Party People, The Road to Guantanamo, e The Trip, The Emperor’s New Clothes affronta il tema sempre scottante delle crisi finanziarie, le cosiddette “bolle”, che negli ultimi anni sono fiorite nel mondo dell’alta finanza per poi trasformarsi in allarmanti crisi economiche in molti Paesi, i cui strascichi viviamo ancora oggi. Costruito sulla storia dell’attivista inglese Russel Brand, a partire dal libro del 2014, Revolution, è anche grazie all’interpretazione dello stesso Brand, attore e commediante noto per le sue provocazioni, che il documentario riesce a coniugare, con straordinaria abilità, ironia, denuncia, potenza visiva, accoppiando documenti con foto d’archivio con sequenze di fiction ambientate tra la Borsa londinese e Wall Street. Ritmo incalzante, volutamente ridondante, chiassoso, che entra con la macchina da presa in territorio prevalentemente inglese, Paese di Brand, un’Inghilterra segnata, dal tatcherismo in poi, da sempre più profonde disuguaglianze sociali che vedono la ricchezza concentrarsi nelle mani di pochi ricchi, i nuovi signori del pianeta, nell’abbandono della working class a condizioni di vita e tempi di lavoro ai limiti della sostenibilità.
Il libro di Brand (non comparso in Italia) fece molto discutere negli ambienti anglosassoni, attirandosi critiche e simpatie: il nemico, l’oggetto da cui nascono tutti i mali della società contemporanea, consiste essenzialmente nella “tirannia corporativa, la responsabilità ecologica, e la disuguaglianza economica” scatenate dai signori della Borsa, speculatori puri completamente indifferenti alle sorti del mondo e staccati dalla realtà, per proporre, come unica soluzione possibile, la Rivoluzione del titolo, cioè una “ridistribuzione globale del benessere”, invocando il ritorno di un nuovo “spiritualissimo”. In fondo, una rinnovata, ma nella sostanza sempre uguale, idea di comunismo. Il documentario punta i riflettori non solo sul mondo dell’alta finanza da cui le crisi sono state speculate e generate, ma anche sugli effetti a valanga, noti a tutti, sulle economie reali e la vita di milioni di cittadini ma, soprattutto, anche su chi, dietro le quinte, ha beneficato del crollo. Grandi evasori fiscali, fughe dei patrimoni in paradisi fiscali, sono tra gli effetti collaterali, ancora intanati, del crollo delle Borse di alcuni anni fa, e a quest’aspetto il documentario dedica una riflessione a sé mescolando quindi (da cui l’effetto di una certa ridondanza) temi e contenuti diversi in un unico contenitore.
La realtà dei fatti, ormai, è nota a tutti, e su questa il documentario non aggiunge sostanzialmente nulla di nuovo, se non la personale cifra autoriale di attore e regista; mi soffermerei invece su un altro aspetto. E’ davvero, l’avidità e l’ingenuità su cui il turbolento documentario punta il dito, un fattore della modernità? Sarebbe ingenuo crederlo: lo stesso titolo, dalla favola di Andersen del 1837, intelligentemente rimanda ad un archetipo del desiderio umano eterno, trasversale ad ogni epoca, che oggi si è vestito nel panni artefatti e misteriosi per la gente comune della Borsa di due città nevralgiche del mondo, ma che è sempre esistito.
L’Imperatore è così vanitoso, come è noto, così dedito alla cura del suo aspetto esteriore, e in particolare del suo abbigliamento, da credere a due imbroglioni che, giunti in città, spargono la voce di essere tessitori e di avere a disposizione un nuovo e formidabile tessuto, sottile, leggero e meraviglioso, con la peculiarità di risultare invisibile agli stolti e agli indegni. I cortigiani inviati dal re non riescono a vederlo; ma per non essere giudicati male, riferiscono all’imperatore lodando la magnificenza del tessuto. L’imperatore, convinto, si fa preparare dagli imbroglioni un abito sebbene, quando questo gli viene consegnato, si renda conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché: attribuisce così la non visione del tessuto a una sua qualche indegnità e, come i suoi cortigiani prima di lui, decide di fingere e di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori. Il re sfila senza vestiti nell’acquiescenza generale, tra cittadini che applaudono e lodano a gran voce l’eleganza del sovrano, pur non vedendo alcunché e sentendosi anch’essi segretamente colpevoli di inconfessate indegnità. La grottesca processione prosegue fino a che un bimbo, sgranando gli occhi, grida con innocenza:
– Ma il re è nudo! –
Ho riportato la favola per intero non perché non sia nota, ma perché non trovo metafora più acuta di questa per non limitarsi a denunciare l’avidità e la ‘cattiveria’ dei nuovi imperatori dell’alta finanza: no, il genio di Winterbottom ha saputo trarre dal lavoro di Brand per tratteggiarne una ben più ampia ed eterna metafora sui bisogni umani. Di tutti, dell’Imperatore ma anche dei sudditi. Alla vanità cieca e stolida dei nostri regnanti, il popolo, indebitandosi con mutui che non avrebbe potuto sostenere, coltivando l’illusione ottica di un tenore di vita, di un altrove, che oggettivamente non era possibile, il popolo si è fatto imbambolare dal vestito immaginario dell’Imperatore.Si sapeva che il castello di carte sarebbe crollato, ma non abbiamo voluto credere, aprire gli occhi, intolleranti alla nuda realtà della vita. Anche lui, lo stolido Imperatore, in qualche modo, vittima: della vanità, di voler vedere ciò che non esiste: lo stesso termine ‘bolla’, entrato nell’uso per questa crisi, ne evoca tutto l’alone semantico di irrealtà, di dimensione sospesa da terra, di qualcosa che basta pungere con un ago, come lo sguardo esterrefatto del bimbo della favola, perché ci scoppi tra le mani. Il re è nudo.
Merito della cifra autoriale del regista e del poliedrico scrittore-attivista e attore, aver miscelato con una narrativa incalzante, avvincente, storica e immaginifica insieme, eventi contemporanei con gli infantili bisogni umani più radicati, più profondi, pronti a ripresentarsi ad ogni epoca con muovi Imperatori, nuovi imbroglioni, e nuovi sudditi. Non è tanto ciò che se ne può oggettivamente guadagnare (quanti ricconi, è noto, pur di sfuggire al fisco vivono in un basso profilo, nascosti, da perseguitati?), non è la roba ciò che l’Imperatore persegue, qualcosa di concreto, che si tocchi e si senta come vivo. E’ l’invisibile, il sogno, la bellezza non posseduta, la fuga dall’indegnità, l’illusione, ciò che l’Imperatore e i cittadini del suo regno, anche noi relativisti post-moderni, inseguiamo senza posa.
Basterà allora, la Rivoluzione redistributiva invocata da Russell Brand?
La Storia fino ad ora, ha dimostrato che no. Poiché:
“Troppa realtà è intollerabile agli uomini”
(T. Eliot)