Tarde para la ira (The fury of patient man)
Regia di Raúl Arévalo (Spagna, 2016)
Sezione Orizzonti
Commento di Elisabetta Marchiori
È un’eccezionale opera prima quella del trentaseienne cineasta madrileno Raúl Arévalo, conosciuto soprattutto come attore di grande talento in patria. “Tarde para la ira” è un film spagnolo che sdogana il cinema spagnolo dallo stile almodovariano, e ne suggella l’uscita dai suoi confini, già iniziata con il poliziesco di Alberto Rodríguez, “La isla minima”, interpretato proprio da Arévalo e girato nello stesso periodo della prima serie di True Detective (il plot è così simile, e con protagonisti una coppia di detective altrettanto “True”, che il regista spagnolo temeva di essere accusato di plagio).
Alfonso Rivera, in cineuropa.org, definisce “Tarde para la ira” un film “selvaggio, audace, duro e autoriale, girato con un nerbo e una forza sorprendenti”: non troverei parole più efficaci. Rimanda al cinema contemporaneo sudamericano, ma anche a quello di autori come Peckinpah e Cronenberg. La sceneggiatura è dello stesso Arélando e di David Pulido, che leggo essere psicologo di professione – e deve essere proprio bravo – perché il risultato è un thriller psicologico che ha come tema portante quello classico della vendetta, ma é orchestrato in modo assolutamente originale, come una partita a poker, di quelle che giocano i personaggi del film, fatta di carte coperte e scoperte, di “vedo”, “passo”, “mi gioco tutto”, bluff.
Ambientato inizialmente nella periferia di Madrid, si apre con una scena – girata dentro l’abitacolo di un’auto – che cattura lo spettatore e lo coinvolge inesorabilmente, dal primo istante, dentro alla storia e ai suoi personaggi, con l’ausilio di una colonna sonora intensa ed efficace.
Dopo una rapina in una gioielleria degenerata in massacro, solo Curro (Luis Callejo), l’autista, è anche l’unico a finire in cella, non avendo mai fatto i nomi dei suoi complici. Loro restano fuori, come la sua donna triste, Ana (Alicia Rubio), con un figlio piccolo concepito durante una visita in carcere, che gestisce un bar. È qui che si presenta un uomo chiuso e senza sorriso, José (Antonio de la Torre), che viene accolto amichevolmente dalla gente del quartiere e che seduce Ana con la speranza in un’ esistenza più serena, lontana dalla violenza con cui si aspetta, come da sempre, di essere trattata dal suo uomo, che di lì a pochi giorni viene scarcerato. La gente si fida di José, è di poche parole e appare mite, invece dentro di sé ha coltivato “pazientemente”, per otto lunghi anni, la sua vendetta, scontando come Curro i suoi anni di prigionia solo, o anche, psichica, in attesa di sapere da lui i nomi dei componenti della banda che ha distrutto la sua vita, studiando altrettanto “pazientemente” il suo piano, per portarlo a compimento senza fermarsi di fronte a nulla. Da interni quasi claustrofobici, il bar, il carcere, la casa di Ana e di José, in cui si svolge la prima parte del film, il regista stacca poi la macchina da presa da primi piani e sequenze che stanno “addosso” ai singoli protagonisti, per trasformarlo in un “on the road” di azione, dal ritmo serrato e incalzante, fino all’ultimo respiro.
Lo spettatore è messo di fronte alla vita dei componenti della banda che non hanno confessato, scontato pene in galera, ma appesantiti da un senso di colpa ancora fresco, di cui solo Curro è privo, forse perché è rimasto lo psicopatico che era: non ci ha nemmeno provato, lui, a “rifarsi una vita”.
Congelato nel suo lutto irrisolto, José diventa “il vendicatore” e non c’è redenzione né per lui, né per nessuno, nemmeno per Ana, che ha speso la sua esistenza “tirando avanti, come tutti”. Questo lei scriveva a José quando si fidava di lui, che le risponde “non tutti”. Infatti José è tenuto in vita dal desiderio di vendetta: non è mai tardi per l’ira, quella che viene nutrita ogni giorno e si trasforma in odio implacabile, di cui la psicoanalisi ha indagato e ancora indaga le radici (si possono leggere in proposito i lavori di Patrizio Campanile, tra gli altri).
Vengono in mente i versi della poetessa Szymborksa “anche la giustizia va bene all’inizio/poi corre tutto da solo, l’odio. L’odio (…)”.
L’applauso che ha seguito la proiezione è stato lungo e particolarmente intenso: è certo anche un film catartico, che tocca affetti violenti, pericolosi e mortifero che si annidano in ogni essere umano, e che permette allo spettatore di viverli, nel luogo protetto della sala cinematografica e nel tempo limitato della durata di un film, come già scriveva negli anni ’60 Cesare Musatti.