Autore: Angelo Moroni
Titolo: “Squid Game”
Dati sulla serie: creata da Hwang Dong-hyuk, 9 episodi, Corea del Sud 2021, Netflix.
Genere: horror, drammatico
La serie tv sud coreana “Squid Game” sta facendo molto parlare di sè, soprattutto perchè declina il tema del “gioco” nell’ambito di un extreme noir movie, che può prestarsi facilmente a modalità imitative da parte di bambini e adolescenti, i quali in tema di “games” sono certamente i più fragili e coinvolgibili. Proprio per questa sua caratteristica di oggetto estetico-filmico dai risvolti ambigui, cinematograficamente molto interessanti, vogliamo dedicare uno sguardo psicoanalitico a quest’opera, soprattutto relativamente alla sua fruizione da parte delle nuove generazioni e ai suoi messaggi.
Seong Gi-hun è un uomo separato dalla moglie e padre inadeguato di una bambina, sommerso di debiti e inseguito da strozzini, che tenta di vincere denaro alle corse e arriva a vendere i suoi organi. Mentre attende il treno dopo l’ennesima perdita incontra un uomo che lo sfida ad un gioco e poi lo invita. Il disgraziato si convince così a partecipare a una sfida che mette in palio per il vincitore una grossa somma di denaro. Seong Gi-hun accetta l’offerta e si ritrova in un luogo sconosciuto insieme ad altre quattrocentocinquantacinque persone con problemi simili ai suoi. I giocatori sono tenuti sotto controllo da guardie vestite in tute fucsia e dal loro sadico capo – Front Man – vestito di nero. Dopo il primo gioco, il classico “Un, due, tre, stella!”, i giocatori scoprono che chi è “eliminato” viene ucciso, e la sua morte aggiunge cento milioni di Wan al montepremi finale. Nel frattempo un giovane poliziotto riesce ad infiltrarsi tra le guardie vestite di rosso, alla ricerca del fratello scomparso.
La trama evoca il filone di Hunger Games (2012), oppure il più prototipico Rollerball (1975), ma l’atmosfera emotiva trasmessa allo spettatore vira nettamente a un pessimismo noir e macabre, che la rende più efficace sul piano del coinvolgimento perchè intrecciata al tema dei giochi per bambini. Il primo episodio si apre infatti con la scena di un gruppo di ragazzini che giocano al gioco (coreano) del calamaro con un uso molto suggestivo del ralenty in alcuni dei momenti più coinvolgenti. Il baricentro tematico drammaticamente messo davanti agli occhi dello spettatore, in modo nudo e crudo, è l’idea, potremmo ben dire “esistenzialistica”, di un radicale pessimismo circa un “futuro” che potremmo davvero non vedere più. Che ciò accada per via dei mutamenti climatici sempre più catastrofici per l’umanità intera, oppure per le sempre più estese diseguaglianze socio-economiche, poco importa, spicca l’assenza di un orizzonte riparativo. Non c’è speranza per un’umanità che – sembra dirci Hwang Dong-hyuk – sarebbe ora aprisse gli occhi sull’abisso che essa stessa ha scavato sotto i suoi piedi, anno dopo anno, secolo dopo secolo.
“Squid Game” è la lucida, spietata rappresentazione di quanto può accadere qualora ogni “regola del gioco” sociale salti e venga sostituita dall’azzeramento totale di ogni tipo di legame affettivo tra gli uomini: la solidarietà, l’empatia, l’amicizia, il legame di coppia, quello fraterno tra gli uomini e le donne, quello generazionale.
L’unica modalità relazionale presente in tutta la serie è quella che rimanda ad una inautenticità di base che muove il comportamento del singolo verso l’inganno, cioè verso un “mors tua, vita mea” di ordine primitivo e darwiniano. Il messaggio veicolato da Hwang Dong-hyuk, quasi un avvertimento insieme sibillino e truce, è quello per cui non possiamo più sottovalutare gli effetti del graduale spegnimento dell’ottimismo dell’umanità nei confronti delle sue capacità di rispetto e di amore verso il prossimo.
Vengono in mente le considerazioni del filosofo coreano, Byung-Chul Han che nel suo libro “Nello sciame.Visioni del digitale” (2020) scrive che “rispettare” significa letteralmente “distogliere lo sguardo” (dal latino “respicio”), o “voltarsi a guardare con la coda dell’occhio”. Rispettare significa “avere riguardo”, avere cioè uno sguardo attento, che si prende cura. L’esatto contrario, cioè, di quello sguardo penetrante e voyeuristico che sembra avere il regista. A questa speranza di cura, al tenerla sempre viva, è chiamata ogni giorno la psicoanalisi, sia quando si occupa dell’individuo, sia quando si occupa di gruppi o della società nel suo insieme. E anche per questo “Squid Game” è una serie che interroga da vicino la psicoanalisi e il lavoro quotidiano di tutti gli psicoanalisti.
Riferimenti bibliografici
Han, Byung-Chul, “Nello sciame. Visioni del digitale”, Nottetempo Edizioni, Milano, 2020.
Novembre 2021