Cultura e Società

Situazioni traumatiche al cinema. Una revisione critica.

12/01/09

 

Per dirla in breve, il cinema utilizza, amplificandola i larga misura, una deformazione della organizzazione personologica che è sempre presente nella vita quotidiana in modo per lo più inavvertito, ma che può assumere aspetti evidenti, e inquietanti, nelle manifestazioni psicopatologiche. Si tratta dei fenomeni dissociativi, che di recente sono oggetto di crescente attenzione nella letteratura clinica specialistica. La dissociazione, che già Freud descrive usando il termine “Spaltung”, quando parla per esempio delle origini del feticismo, può essere vista come fenomeno ubiquitario se la si considera come un effetto della normale, incessante e necessaria attività della rimozione: la personalità è sempre in qualche modo ‘scissa’ tra l’attività conscia (non necessariamente del tutto consapevole) e le aree preconsce e inconsce della psiche; le scienze cognitive e le stesse neuroscienze a loro volta ammettono questo tipo di funzionamento, anche se la loro visione dell’inconscio non tiene conto della struttura dinamica delle varie parti, caratterizzante il modello corrente in ambito psicoanalitico.

In realtà, la ‘dissociazione’ in senso stretto è qualcosa di più: non sono ‘parti’ della personalità che operano in modo indipendente, ma è l’intera personalità che risulta strutturalmente divisa, e quando una delle due (o più) personalità che così si formano è presente, le funzioni dell’altra risultano sospese se non annullate, come appare chiaramente quando la dissociazione assume dimensioni francamente patologiche, per esempio nelle forme dette di ‘dipendenza’, sia da sostanze, sia da comportamenti compulsivi.

Ciò che viene ‘dissociato’ è un certo ‘senso della realtà’, normalmente prevalente, al quale si sostituisce un ‘senso della realtà’ del tutto diverso, governato da criteri e regole ad hoc, tanto che il soggetto in stato di dissociazione sembra agire comunque secondo una certa logica, ma non la riconosce poi come tale quando la situazione dissociativa si attenua o scompare. Anzi, lo stato dissociativo viene spesso descritto come una sorta di ‘trance’ ipnotica, seguito da un ‘risveglio’ talvolta traumatico.

E’ noto peraltro che le terapie di derivazione psicoanalitica si sono sempre servite di una ‘dissociazione indotta’, e moderata, per facilitare la comunicazione paziente/terapeuta tramite la sospensione di alcuni ‘effetti di realtà’ che possono accentuare aspetti difensivi indesiderati, mentre le attuali terapie ipnotiche (con esiti troppo spesso discutibili) ne fanno un uso massiccio e mirato per ottenere la regressione psichica a stati mentali non controllati dalla coscienza.

Se la condizione dissociata viene considerata lungo un continuum che va dal quotidiano all’eccezione patologica (versione però non da tutti ritenuta accettabile) appare chiaro che la situazione cinematografica, pur non essendo un caso unico, assume una collocazione particolare che la rende assai interessante per esplorare particolari stati di coscienza, che generalmente non sono facilmente attingibili.

La specificità del cinema è evidente, in tale ottica, non solo a causa del carattere regressivo indotto dalle condizioni nelle quali viene fruito il film, ma per i suoi effetti sulle funzioni mentali relazionali come abbiamo imparato a conoscerle oggi. Infatti, possiamo descrivere la situazione cinematografica odierna, così come viene vissuta oggi, non più soltanto come una condizione di moderata dissociazione ‘benigna’ dovuta al particolare ambiente fisico in cui si svolge, ma come la voluta sollecitazione a creare una sorta di ‘doppia personalità’ nello spettatore, con una serie di conseguenze di una portata sicuramente maggiore rispetto a quanto si riteneva in passato.

Se si trattasse solo di effetti delle condizioni ambientali della fruizione, i film visti su un supporto diverso dallo schermo cinematografico non sembrerebbero più tali, e sappiamo che ciò sicuramente non avviene. Sono gli effetti ‘relazionali’ della visione cinematografica quelli che la rendono psichicamente appetibile per lo spettatore, benché in teoria essere in uno stato di dissociazione quasi incontrollata, a quel livello, non sia considerato normalmente né piacevole né tanto meno desiderabile socialmente. Non bisogna dimenticare che ‘sentirsi dissociati’ comporta in sé, comunque, un possibile senso di disagio per molte persone, a meno che non sia garantito un certo grado di controllo della situazione, che la possa rendere gradevole e soprattutto transitoria.

Va chiarito qui che gli effetti che chiamiamo relazionali non riguardano solo le ‘relazioni’ intrapsichiche che si attivano nei confronti dei personaggi che appaiono sullo schermo, note come fenomeni di identificazione e proiezione, ampiamente studiati nelle prime ricerche psicoanalitiche sul tema. In realtà, la situazione cinematografica, alla luce di quanto oggi sappiamo, attiva fenomeni interpersonali di empatia e di imitazione, che in qualche modo circolano anche tra gli spettatori: non esiste uno spettatore isolato nella sua soggettività, anzi inconsciamente egli partecipa sempre a una situazione gruppale, con tutti i correlati emotivi che essa porta con sé e che svolgono un’azione a distanza proprio per la comunanza di spazio e tempo.

In sostanza, il cinema si propone come luogo di una dissociazione collettiva, nella quale ognuno vive la propria situazione personale attraverso fenomeni di risonanza psichica che hanno un ruolo non indifferente nel facilitare, o attenuare, gli effetti della relazione con quanto avviene sullo schermo. E’ come se un ‘secondo Sé’ si attivasse, sia a livello individuale sia in forma collettiva, e si vivesse immersi in questa singolare esperienza comune, ma al tempo stesso profondamente individualizzata, per tutto il tempo necessario a seguire una vicenda ‘altra’, in un altro luogo, un altro tempo, e così via.

Si incontra qui un secondo aspetto relazionale, questa volta a un livello intrapsichico ancora più profondo: si tratta della relazione che ciascuno spettatore, proprio per fruire il rapporto con il film, è spinto a instaurare tra le due personalità che deve necessariamente coltivare per tutta la durata dell’esperienza cinematografica. Infatti, per poter ‘vedere’ un film, e non soltanto ‘guardarlo’ come un oggetto esterno, è necessario che l’esame strutturale di realtà si scinda tra quello normalmente richiesto dall’ambiente sociale e un secondo esame di realtà ‘sui generis’ che è quello della vicenda fittizia e tuttavia ‘reale’ che si svolge sullo schermo. In termini attuali, diremmo che ‘l’enciclopedia’, ‘il manuale’ e ‘il dizionario’, ovverosia i tre apparati costituiti dalle nozioni/cognizioni/emozioni/significati di cui ciascuno si serve continuamente per vivere nel proprio mondo, vengono più o meno ampiamente sostituiti da analoghi apparati adatti a entrare nella speciale realtà che si attiva sullo schermo.

Se questo è vero, allora la effettiva esperienza psichica indotta dal film non riguarda solo lo schermo, ma anche la relazione che si crea ex novo tra due aree assai diverse del mondo interno: esperienza che si può capire quanto possa essere all’occasione complessa… e traumatica. Per questo non è affatto paradossale affermare che lo schermo non funziona solo da superficie comunicante aperta verso la platea, ma, in misura non minore, da Specchio. E’uno specchio nel quale il soggetto si ritaglia il proprio personalissimo modo di vivere, sopportare, accettare e gestire un’esperienza dissociativa che si rivela,inoltre, quanto mai apportatrice di significati e motivazioni profonde.

Si aprirebbe qui lo spazio per un’analisi ulteriore, fenomenologica, delle possibili conseguenze emozionali, non solo transitorie, che comporta il ripetersi, pressoché quotidiano, di una simile esperienza: poiché non c’è ormai nulla di più ubiquitario della fruizione cinematografica, proposta attraverso i media senza soluzione di continuità, in modo profondamente indifferenziato.

Ma possiamo soprattutto innanzitutto renderci conto di quanto l’esperienza cinematografica sia strutturalmente ‘traumatica’, almeno se consideriamo quanto possa diventarlo un’esperienza di dissociazione, per quanto controllata e ‘benigna’, in un mondo sociale e culturale che funziona certo riproponendola continuamente (come abbiamo notato sopra) ma al tempo stesso si preoccupa con altrettanta urgenza di contenerla, inibirla o reprimerla. E possiamo anche renderci conto dell’attrattiva che nasce dalla possibilità di riprodurre la propria personale dissociazione in uno spazio, quello della buia sala cinematografica (o del salotto di casa), che ha apparentemente tutti i caratteri dello spazio privato… senza esserlo mai del tutto.

 

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Detto questo, possiamo distinguere, e eventualmente descrivere le svariate possibilità di effetto traumatico che si producono andando al cinema: ma si dovrebbe passare attraverso l’analisi della rappresentazione di eventi quale si attua nel singolo film, e si aprirebbe una trattazione molto complessa, poiché vedere un film è una esperienza con la caratteristica paradossale di poter apparire semplice e ‘naturale’ come la percezione degli eventi quotidiani, pur essendo in realtà quanto di più artificiale e fittizio possa esserci. Tutto, nel film, è stato pensato per creare questo particolare equilibrio, con tutte le possibili varianti tra ‘naturale’ e ‘artificiale’ che, volute o meno, si presentano a uno spettatore (non dimentichiamolo) pagante proprio per incontrare tale esperienza.

In breve, lo spettatore va incontro a una situazione di gioco, nella quale un ‘mondo’ fittizio per definizione si trasforma, letteralmente sotto i suoi occhi, in un ‘universo finzionale’ con una sua specifica organizzazione. Condizione perché ciò avvenga è che la rappresentazione si sviluppi nel tempo, ovverosia che sia in atto (in qualche modo) una ‘storia’.

Insomma, il Sé alternativo, che viene attivato dalla dissociazione ‘benigna’propria della situazione cinematografica, entra in un universo finzionale basato sul presupposto di tutti i giochi, vale a dire il piacere di curiosare e sperimentare. Partecipando a una ‘storia’, questo Sé si espone volutamente a rischi che sono però piacevoli, finchè viene mantenuto un certo grado di coerenza, o meglio di coesione del Sè. Si accettano parametri di funzionamento diversi da quelli consueti, ‘entrando’ nella storia, attraverso identificazioni transitorie con persone fittizie, e percorrendola nel corso del tempo, a sua volta piacevolmente scisso tra ‘tempo reale’ (la durata del film, praticamente inavvertita) e tempo diegetico (il tempo della storia).

Il film amplifica la situazione dissociativa attivata dall’essere ‘al cinema’, ma si presume che ciò avvenga entro certi limiti. Le rappresentazioni da cui è costituito si susseguono in un tempo fittizio ma abbastanza comprensibile, o sopportabile: non troppo alieno da diventare alienante. Psicologicamente parlando, film e sogno hanno un punto di contatto non tanto, come si pensava, nella loro organizzazione funzionale, ma nel loro significato esistenziale: quello di evocare il fantasma della follia, di mettere il soggetto di fronte all’ipotesi di sperimentare una psicosi temporanea. Nel caso del film, si tratta di una psicosi semi-cosciente, cosa che lo rende attraente perché pericoloso, ma anche viceversa.

Nel momento in cui il gioco creato dall’universo finzionale, mantenuto da una moderata dissociazione, vissuto attraverso un Sé parziale/alternativo, perde il suo assetto, non è più riconosciuto come gioco e diventa seriamente ‘folle’ e ‘alieno’, si produce un trauma che, questa volta, non è più ‘finto’ ma ‘vero’, e non più evitabile.

La tipologia dei traumi possibili che così si vengono a creare è praticamente infinita, quanto infinite (potenzialmente) sono le storie possibili. Certamente, il pensiero va normalmente ai ‘contenuti’ della rappresentazione. Scene di violenza e di sesso, come vuole la tradizione su cui si basa l’applicazione di una censura, pubblica e amministrativa, e talvolta privata e implicita. Contemporaneamente, sesso e violenza sono i materiali con i quali da sempre il cinema ha lavorato, di cui rigurgitano, a vari livelli di visibilità, i film di ogni epoca. Sono materiali strettamente collegati alle emozioni primitive (paura, rabbia, gioia, tristezza, disgusto) e all’esperienza dell’eccitazione.

Il Sé alternativo viene ‘mandato avanti’ nell’universo finzionale, a provare una forte eccitazione, solo in piccola parte fittizia, di fronte ai pericoli costituiti dalla rappresentazione di violenze o di atti sessuali. Il Sé alternativo può trovare anche piacevole vivere in un universo dove, per definizione, tali rappresentazioni non sono ammesse, quindi nei generi ‘leggeri’della commedia, della fiaba, del comico… Ma si può pensare che i fantasmi aggressivi e sessuali siano comunque presenti, e piacevolmente assaporati come attivi, per un momento, solo sullo sfondo della vita psichica.

 

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Il trauma interviene quando il Sé alternativo diventa inadeguato rispetto alle rappresentazioni, alla storia, al tipo di temporalità della narrazione: insomma quando l’esperienza di essere, comunque, in un gioco (“è solo un film”) diventa impossibile da mantenere per le più svariate ragioni. Qui il livello personale e qiuello collettivo della fruizione entrano in conflitto, occorre riconoscere la propria individualità, quindi si deve ritornare repentinamente al Sé ‘normale’ e soprattutto normativo. Il fenomeno dissociativo oltrepassa i livelli di guardia, si avverte un disagio crescente rappresentato da una possibile crisi d’angoscia, i confini Io/Sé/Mondo tendono a saltare, il rapporto tra le varie aree di sé risulta alterato.

Il ‘vero’ trauma, allora, non risiede tanto nella forza aggressiva delle rappresentazioni, quanto nella percezione che il proprio Sé identitario e il Sé alternativo ‘cinematografico’ siano improvvisamente incompatibili tra loro e, insieme, di fronte a qualcosa di esterno ad essi: è l’esperienza dell’”alieno”. L’astuzia rappresentativa dei film di fantascienza sta proprio nel depotenziare il valore traumatico dell’esperienza dell’alieno, ma al tempo stesso far intravvedere tutta la sua pericolosità: tuttavia, a ben vedere tutti i generi cinematografici sono, in un modo o nell’altro, basati su tale meccanismo. Come nel sogno, il film promette di mostrare cose terribili o bellissime, in una parola sublimi, senza che il sognatore/spettatore sia costretto a ‘svegliarsi’ per l’angoscia; qui ha rilievo un’altra variabile sempre presente nella vita umana, ovverosia la necessità ancestrale di evitare sempre la passività di fronte agli eventi, o almeno di utilizzarla a fini di sopravvivenza.

Una possibile trattato di‘traumatologia’ cinematografica riempirebbe, probabilmente, diversi volumi di grande formato, data la frequenza, varietà e ricchezza di questo genere di esperienza. Tuttavia, potrebbe essere diviso in due grandi sezioni: il trauma rappresentato ‘dentro’ il film, rispetto al quale è in gioco un problema di distanza percettiva, e il trauma provocato ‘tramite’ il film, dove si incontra il tema dell’impatto sociologico del cinema sulla vita della collettività.

Stiamo assistendo in questi anni a una vera e propria mutazione del senso e significato profondo dell’esperienza, individuale e collettiva, che passa attraverso cinema e film. Tale mutazione ha quale suo elemento fondante/specifico appunto la traumaticità della situazione filmica, e la posizione del soggetto di fronte a una simile evenienza. Il cinema, in altre parole, sta diventando una sorta di amministratore dell’orrore, mentre si deresponsabilizza di fronte al potenziale traumatico che somministra in questa veste, quasi a voler prefigurare una fase storica in cui i parametri di sicurezza e prevedibilità del mondo (esterno, ma anche interno) risutano sospesi e sempre più confusi.

Si comprende allora come sia sempre più frequente il tentativo di traumatizzare direttamente lo spettatore, in una sorta di paradossale addestramento all’orrore.In questo processo, chi comunica (il regista, l’industria) cerca di mostrare una sorta di identità tra il mondo interno e l’esterno, una compenetrazione del Sé e dell’Altro, dove il Sé individuale perde coerenza e solidità attraverso l’esperienza, quasi quotidiana, di rappresentazioni traumatizzanti, ma dove ci si abitua anche a viverle come prive di eccezionalità, anzi a considerarle desiderabili. Nel mondo del narcisismo di massa, si paga per dimostrare a sé stessi che ogni sorta di trauma è sopportabile, ma anche per apprendere, sottilmente, che il proprio narcisismo è una struttura fasulla. Questa singolarità potrebbe a sua volta essere spiegata come effetto sia di un residuo desiderio di autenticità, sia di un inesausto bisogno di verifica narcisistica di ‘secondo grado’, a suo modo adattiva in quanto individualizzante. La domanda che sorge a questo punto è: come si traumatizza ‘direttamente’ lo spettatore cinematografico?

 

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Proprio perche il cinema è un mezzo audiovisivo, ma con una netta preponderanza del ‘visivo’, esso è in grado di riattivare l’antica struttura, antropologica, del tabù del vedere. Se, per sua natura, il cinema appare come una macchina capace di far guardare, al di là della stessa capacità percettiva, ciò che è normalmente irragiungibile con i sensi, d’altra parte costringe anche a trasformare il ‘guardare’ in ‘vedere’, cioè trasforma lo sguardo indifferenziato e indifferente in uno sguardo mirato, specifico, coinvolgente direttamente la responsabilità dello spettatore. Come nei miti, greci in particolare, chi ‘vede’ non può restare innocente e, per così dire, impunito: subirà tutte le conseguenze della trasgressione di un tabù, anche se non lo ha fatto volontariamente.

Sappiamo d’altra parte quanto il vedere sia coinvolto nella dinamica di costruzione della soggettività, secondo la psicoanalisi: la ‘scena fantasmatica’ in genere, come metafora visiva dell’animarsi primitivo della psiche; ancor più, ‘la scena primaria’, o ‘capitale’, che secondo alcuni (Laplanche) va a costituire la struttura psichica passando attraverso la seduzione, intesa come fondazione, ambivalente, della relazione oggettuale primaria.

E’ impressionante il parallelismo che si potrebbe istituire con la situazione cinematografica, in sé seduttiva e in sé potenzialmente traumatizzante, in quanto operante sul tabù del vedere “ciò che occhi umani non hanno mai visto”. Citazione, questa, non del tutto casuale dal notissimo film “Blade runner” (Ridley Scott, 1982), che già nel titolo evoca la condizione di chi “corre sul filo”, tra realtà e non-realtà, tra l’umano e l’artificiale. Anche la datazione è significativa: sono gli anni ’80 del secolo ormai passato, in cui matura una svolta profonda in alcune strutture dell’immaginario cinematografico, che potremmo definire come il passaggio dal ‘cinema moderno’ a quello ‘postmoderno’. Postmoderno perché è evidente, da allora, una progressiva rivoluzione delle tecniche narrative e visuali, delle tecnologie, dei ‘generi’, delle produzioni, e così via. Rientra in questo cambiamento, anche la revisione dei tabù visivi fino ad allora ancora in atto, almeno parzialmente: perché non bisogna dimenticare che fare cinema vuol dire anche avere a che fare con forme, più o meno istituzionali, di censura.

In questa transizione, cambia radicalmente il modo di rappresentare il trauma, ovverosia, sul versante psichico, di operare sulla dissociazione ‘controllata’ dello spettatore di un qualsiasi film. Grosso modo, il cinema ‘moderno’ prevedeva la rappresentazione delle situazioni traumatiche mantenendole, per dir così, all’interno della narrazione e giocando sulla identificazione dello spettatore con i personaggi. Il trauma rappresentato (e per lo più riassorbito attraverso gli stilemi narrativi, tra cui il finale positivo, l’Happy End) appare quasi sempre con un carattere di ‘eccezione’, che del resto serve a caratterizzare un sottinteso carattere eroico, individualizzante, del protagonista o della vicenda stessa, o del contesto, e così via.

Il trauma, in questo filone rappresentativo, si dimostra essere una trasgressione dalla corrente prevedibile degli eventi, a meno che non ci si trovi in dimensioni apertamente fantastiche. Per usare una definizione generale, si può dire che il trauma nel cinema moderno si produce “per infrazione”. Un esempio significativo potrebbe essere quello dei film (oltre un centinaio, a quanto sembra) che sfruttano, direttamente o indirettamente, la vicenda “Dottor Jeckill e Mr. Hide”, nei quali le metamorfosi, lo sdoppiamento e le sue conseguenze, danno luogo a evidenti risvolti traumatici; ma si potrebbero citare numerosi altri casi, non solo nel cinema di genere. Il cinema d’autore italiano (Visconti, Antonioni, Fellini) con le sue vicissitudini censorie negli anni ’60, potrebbe essere un buon caso esemplare, da studio nelle scuole, di quello che una determinata cultura sociale riteneva traumatizzante al punto di renderlo tabù: successivamente la vicenda della distruzione, anche fisica, del film di Bertolucci “Ultimo tango a Parigi”, ne dà una dimostrazione ancor più clamorosa.

Il cinema del trauma “per infrazione” (dei codici visivi, narrativi, etici) ha ancora un legame con il tabù del vedere di cui sopra: forse, persino,vi si trova qualcosa che ha a che vedere col sacro, come forse pensava anche Freud quando analizzava il terribile sguardo di Mosè nella statua di Michelangelo. Né va dimenticato che fino alla diffusione planetaria della televisione ‘andare al cinema’ costituiva comunque una scelta con alcuni caratteri di ‘attività’che lo collocava in una dimensione non del tutto usuale e ripetitiva.

Il cinema postmoderno, nel mondo dei media onnipresenti, ricorre a un diverso coinvolgimento dello spettatore (che a sua volta sa di essere parte dello spettacolo) tramite un processo che vogliamo definire “per inflazione”. Qualsiasi spettatore ha subito, in questo contesto, un sovraccarico di rappresentazioni. Molte sono rappresentazioni del vecchio tipo, che però hanno perso, per effetto dell’abitudine, un carattere traumatico, e sono entrate a far parte di un bagaglio quotidiano di sollecitazioni a sfondo aggressivo, sensuale o sessuale, che provengono dalle fonti più varie, ivi compresa la rappresentazione documentaria della realtà esterna nella catena dell’informazione. Qualunque cittadino del mondo occidentale ha una visione ‘inflazionata’ della traumatologia universale. Occorre quindi agire sui fenomeni dissociativi in modo tale che il rischio/piacere della dissociazione controllata, che costituisce l’attrattiva della visione cinematografica, resti pur sempre abbastanza elevato, tanto da valer la pena di ricercarlo come spettatore pagante.

La tecnologia viene in aiuto ai registi e produttori che si trovano a lottare, metaforicamente, con soglie di assuefazione del pubblico sempre più alte. Per esempio, sul versante del suono, viene sempre più elevata l’intensità e pervasività della musica e del rumore (il cosiddetto sistema Dolby tereo) con risultati in qualche modo analoghi a quelli ottenuti ai tempi dell’introduzione del sonoro: insieme, accresciuta impressione di realtà da un lato, effetti di trance acustica dall’altro. L’immagine migliora sempre più, al punto che si creano possibiltà inusitate, come quella di un film girato a colori e poi virato in un bianco e nero del tutto particolare (“L’uomo che non c’era”, 2001, dei fratelli Cohen), e le possibilità di creare ambienti del tutto nuovi con l’uso del computer amplia enormemente le possibilità di suggestione del mezzo cinematografico; “effetti speciali” sempre più sofisticati divengono l’attratttiva di film che sotto altri punti di vista sarebbero del tutto mediocri. Parafrasando un ben noto programma della poetica barocca, si potrebbe dire: “E’ del poeta (o del regista) il fin la meraviglia”, con tutti gli addentellati emotivi del caso: l’attesa, lo stupore, lo stress, l’appagamento, eventualmente la delusione e la rabbia, e così di seguito.

Tutto questo non avrebbe però un effetto così intenso se non fosse accompagnato anche da una sorta di rivoluzione delle tecniche rappresentative e narrative: artifici di montaggio, inquadratuira e sequenza volti a una sempre maggior velocità dell’azione (una sorta di isteria rappresentativa), che permettono il passaggio di quantità sempre più elevate di informazioni visive, almeno all’apparenza. La rappresentazione del trauma per via narrativa è doppiata da una traumatizzazione sensoriale vera e propria: al posto della ‘vecchia’ identificazione/proiezione si riscontra un meccanismo molto simile a quello noto in clinica come ‘identificazione proiettiva’: la maggiore cultura visiva del pubblico medio fa sì che si sviluppino singolari percorsi di complicità con il film come ‘oggetto comunicativo’, in continua oscillazione tra l’immaginario “puro” e la complicità “tecnica” con il prodotto ‘ready made’. Alcuni programmi delle avanguardie artistiche novecentesche (futurismo, surrealismo) sembrano quasi essere realizzati dalla cinematografia commerciale!

Ma tutto questo, sotto l’angolatura dell’effetto traumatico, non avrebbe tanta rilevanza se non fosse per la contemporanea evoluzione, o rivoluzione, delle tecniche narrative. Si accentua la distanza tra la ‘storia’ (o ‘fabula’) e il racconto, o intreccio: ma soprattutto la presentazione di contenuti rappresentativi traumatici (spesso legati al corpo ipersessuato o violato, o al cadavere) avviene in un contesto narrativo in cui sono rivoluzionati completamente i nessi temporali.

Con l’abolizione di percorsi temporali riconoscibili come lineari, come anche di tutti quei segnali visivi che in passato li marcavano in un modo o nell’altro (la dissolvenza come segno del flash-back), lo spettatore viene volutamente sottoposto a un particolare tipo di stress, radicato in alcune frequenti esperienze regressive infantili, ovverosia la perdita di un assetto percettivo coerente. Ciò che, a sua volta, aveva un versante narcisistico positivo, in quanto realizzava nell’immediatezza, certo illusoriamente, il controllo venato di onnipotenza del mondo intero. Il tempo spazializzato, scandito da intervalli definiti e esteso su una durata prevedibile, rappresenta simbolicamente, infatti, il possesso contemporaneo del corpo e dell’universo relazionale nel suo complesso. Il film privo di un centro, in cui la sceneggiatura distorce tutti i parametri della prevedibilità, tende a riprodurre quasi adesivamente il caos degerarchizzato in cui sembra precipitare la mente nell’attacco di follia, oppure in esperienze più normali (ma transitorie e brevi) come gli stati crepuscolari, i sogni, le fanatasie destrutturate a occhi aperti.

Psicosi/sogno e film si situano allora entro una continuità mai sperimentata in precedenza a livello collettivo; anche questo contribuisce a renderla potenzialmente o realmente traumatizzante. Mai come in tempi recenti alcuni film e alcuni registi hanno saputo riprodurre, per così dire dall’interno, l’esperienza della follia o della psicosi tout court (D. Lynch tra tutti, senza peraltro dichiararlo, il che rende la cosa realmente traumatica), oppure hanno mostrato forme di psicopatologia insidiose e angoscianti (D. Cronemberg, “Crash”, 1996; C. Chabrol, “Il buio nella mente” 1995…).

E tuttavia il carattere traumatico di questi film ‘autoriali’ può risultare, paradossalmente, inferiore a quello di produzioni più commerciali che si propongono sotto le spoglie del ‘genere’ e che, come spesso succede, riescono a colpire nodi dell’immaginario collettivo normalmente coperti dalla patina del quotidiano, che ne cela il carattere destrutturante e de-securizzante. Tutta la filmografia sulle problematiche amorose, che in apparenza può non mostrare nulla di traumatizzante a livello dei contenuti visivi, può produrre un potenziale di sottili angosce (la percezione di una natura profondamente perversa riscontrabile inconsapevolmente nei paradigmi amorosi correnti, come in “Closer”, 2004, di M. Nichols) che agiscono sulla tensione esistente tra i Sé dissociati sopra descritti. Non occorre andare a film catastrofici o programmaticamente stressogeni, come per esempio tutti quelli sui voli in aereo dopo l’11 Settembre, per scoprire, film dopo film, una continua, persistente vena di voluto coinvolgimento diretto dello spettatore in una esperienza traumatizzante che è il film stesso, nella sua forma espressiva ancor prima che nei contenuti, oggetti ed eventi che mostra e dimostra.

Ma il vero protagonista occulto di questa cinematografia è in realtà la figura della Morte. Sempre meno tabù, all’apparenza, visto che viene mostrata ‘concretamente’ con sempre minori cautele, sempre più traumatizzante in quanto oggetto di una ‘normalizzazione’ psicologica perversa nel suo essere indicata come un fenomeno casuale e insensato, e sempre meno esorcizzabile proprio perché svuotata di senso, in un certo senso erotizzata attraverso il proliferare non contenibile, dilagante, dell’immaginario, che il cinema postmoderno ha scelto come sua cifra.

 

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Trauma ultimo, la morte potrebbe essere considerata la vera portatrice, al cinema, di autentiche angosce, dato che i generi più popolari (l’horror, il thriller, i film di guerra e spionaggio) sembrano costantemente dedicati a rappresentarla, mostrarla, evocarla in tutti i suoi aspetti più inquietanti, apparentemente allo scopo di esorcizzarla, creando un tabù di secondo grado. Ma il carattere traumatico di queste continue rappresentazioni della morte, a ben vedere, risiede in un aspetto paradossale delle immagini con le quali viene evocato un simile evento, e in questo c’è una somiglianza con le rappresentazioni della sessualità (come ci suggerisce la letteratura psicoanalitica sulla violenza nella sessualità, ovvero la pornografia). L’aspetto paradossale risiede nel fatto che, quanto più vengono mostrati nella loro immediatezza apparente, tanto più la morte e il sesso sfuggono alla presa dell’esperienza in genere e in quella cinematografica in particolare: non c’è una morte ‘normale’, come non c’è un amplesso ‘normale’: si intende ‘normale’ nel senso di accessibile al pensiero e ripetibile percettivamente, al pari di tanti altri eventi esperienziali quotidiani.

Il vero trauma, in questo campo, insorge soprattutto attraverso l’allusione, cui hanno fatto ricorso in molti, da Fritz Lang, a Bergman, a Visconti, per arrivare a Nanni Moretti ne “La stanza del figlio” (2001), dove è il vedere solo gli esiti esterni dell’evento fatale, con gli effetti sui superstiti, ciò che rende la sua rappresentazione angosciosamente efficace. Altra strada è quella di mostrare la morte come fenomeno di massa, come del resto si riscontra nella rappresentazione di scene orgiastiche (“Eyes wide shut” di S.Kubrick, 1999); in tal modo si apre la porta alla verità nascosta nell’evento irrepetibile: la perdita dell’identità come individuo, che rivela il carattere fittizio di tutto ciò che è socialmente/psicologicamente costruito intorno ad essa.

In altre parole, il trauma che si produce al cinema è la percezione, contemporanea, della propria unica e insopprimibile presenza nel mondo e, in modo altrettanto certo, della propria caducità. Allo stesso modo un film esiste finchè è visto e fruito da spettatori, offrendo loro una potente sensazione di realtà: ma non appena termina, rivela appieno la sua fragilità di oggetto appartenente all’immaginario, e in quanto tale destinato a essere probabilmente assorbito in una grigia anonimità. L’anomia, la perdita di identità, la ripetizione perversa dell’uguale, infine la perdita di ogni barlume di creatività, sono i fatti veramente traumatici, , che si producono al cinema, in quanto portatori di una dissociazione profonda tra Sé e Sé. Eppure, contro di loro ogni singolo film, per quanto mal riuscito, cerca di dare nello stesso tempo il suo contributo di opposizione. Perché, come diceva François Truffaut (o forse qualcuno dei suoi amici, nel periodo più creativo della storia del cinema francese), il Cinema è… amore.

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