Confini confusi
Il punto di vista di Giovanni
Sergio Anastasia
La serie televisiva “In treatment” ci pone dinanzi al tentativo di mettere in scena la dimensione più profonda che esista: il dialogo interno o quello con il proprio analista. Il “format” televisivo é originariamente pensato per paesi, quali Israele e gli USA, dove è presente una cultura pragmatica, aperta al meticcio, al fusion. L’Italia, invece, è il paese dove il contatto con l’altro, con dimensioni profonde di sé è, per certi versi, ancora visto come pericoloso, minaccioso per l’identità che va “preservata” dalla curiosità, dall’interesse, dalla passione. Poi tutti davanti alla Tv (una certa tv), a spiare il dolore, il sesso, la vita … Il tentativo di raccontare un dialogo possibile tra “persone”, tra “esseri viventi” è allora coraggioso ed innovativo, ma anche assai arduo nel nostro tessuto sociale. Il rischio è una spettacolarizzazione che rende l’incontro caricaturale.
La seduta di venerdì (ma che supervisione è più, quella in cui il terapeuta si presenta con la moglie?), mostra un eccesso di rappresentazioni dove Giovanni/paziente inscena la vittima dei suoi stessi sensi, delle proprie vertigini, mentre il supervisore/terapeuta cartesianamente si allea con la parte razionale della mente (della coppia) e tenta di imporsi sul mondo interno del-terapeuta-/del-paziente. Il “super-terapeuta” diviene una sorta di oracolo che si astrae dal contatto e dall’alto del suo sapere (psicoanalitico?), tenta di proporre al terapeuta (e alla moglie) in crisi ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ma il contatto non convince, è barocco, è razionalista. La stanza di Anna (ma si potrebbe dire lo stesso di quella di Giovanni?), è un non-luogo impersonale. È il salotto di casa? È lo studio dell’analista? Quello che, a mio avviso, dovrebbe essere uno spazio denso di oggetti viventi (prima di tutti l’analista), a disposizione del paziente/supervisionato che “gioca” per liberarsi dalle proprie sovrastrutture ed impara a proteggersi, è qui rappresentato invece come uno spazio morto del supervisore/non-più-terapeuta/non-più-supervisore che chiede di essere riempito ed essere reso vivo. La “verità” incalza invece di essere disvelata attraverso nuovi significati, nuove rappresentazioni, nuovi racconti. Viene messa in scena. In una scena in cui Giovanni, il/la paziente, la moglie “agiscono”, reclamando un posto sulla scena della terapia/supervisione (?), per urlare: “sono vivo!!”.
Nella realtà, ciò che preserva il contatto tra paziente ed analista, terapeuta e supervisore da incursioni ed ostacoli, sono le “regole”, quali: l’astensione dall’agire le proprie emozioni, non giungere a conclusioni affrettate, essere parte di una comunità di persone, di colleghi, avere una vita che si muove tra il dentro ed il fuori della stanza di analisi con incroci appassionanti e fecondi, ma non intrusivi e preconfezionati.
Ecco, questo mi pare sia il punto. Mi pare che l’incontro tra Anna e Giovanni, la moglie e Sara (la paziente dal transfert erotico di cui si innamora Giovanni), sia troppo pensato per essere dentro un format, ideato però per un altro pubblico “diversamente educato”. Il risultato è che qui le passioni, quelle vere, tristi e gioiose ed il come queste si articolano tra loro meravigliosamente ed incredibilmente nella vita (psicologica) degli individui, sono rese pre-confezionate, già giudicate (negativamente) a-priori.
Il tentativo che immagino abbia mosso il bravo regista e che scatena la fantasia di chi osserva, di rappresentare un dialogo interno nelle sue diverse angolazioni, resta in attesa forse di una svolta “illuminista”, che permetta di scoprire come “l’istante qualunque” (il provare emozioni sincere o, come in questa puntata, vivere un amore transferale), se accolto e contenuto dentro la seduta, le sue regole, può fungere a pretesto per la realizzazione di imprevedibili destini (la separazione? Un’identità professionale nuova, meno infantile ed onnipotente?). Le vicissitudini profonde non costituiscono “oggetti” da ricacciare lontano dalla vita razionale degli individui, bensì sono un pretesto per progredire nella conoscenza di noi stessi.
L’importanza dell’unità più elementare, più profonda, basica ed istintuale nella vita di tutti noi è una scoperta. Una scoperta che si può considerare avere origine con la psicoanalisi.
Bisognerebbe darne atto, non declamandone la forza dirompente, ma mostrando come, attraverso un percorso analitico, da essa possano generare rivoli che conducono gli individui verso il dolore, il piacere, le tristezze, le passioni, la felicitá … insomma … verso la vita …
Il punto di vista di Anna
Sarantis Thanopulos
I casi clinici del dott. Giovanni Mari, analista in crisi non privo di intelligenza e di sensibilità, sono difficili, complessi, interessanti, una sfida per il lavoro analitico. Di fronte all’intensità emotiva dei suoi pazienti Giovanni vacilla oscillando tra ritirate “strategiche” e invasioni di campo. Il suo approccio non disdegna i collegamenti della situazione presente con la storia dei suoi analizzandi, né il lavoro sui loro vissuti inconsci; curiosamente egli sta alla larga dai loro sogni, che sono i grandi assenti dalla scena analitica.
Sara, una giovane paziente molto bella e molto seduttiva (dall’erotismo tanto aggressivo in superficie quanto inibito in profondità) lo travolge con il suo transfert erotico. Il ricorso a un suo supervisore del passato sembra a Giovanni il solo rimedio. Si rivolge a Anna, la donna che l’ha tenuto in supervisione per otto anni e con la quale non era più in contatto da altri otto anni in seguito a una rottura dolorosa per entrambi.
L’austerità della figura di Anna e l’ambivalenza di Giovanni Mari nei suoi confronti dominano con il loro scontro la scena fin dall’inizio, oscurando in parte una situazione in cui il lavoro di supervisione si trasforma progressivamente, loro malgrado, in un “caravanserraglio”. La supervisione si confonde subito con l’analisi. Più che essere supervisionato da Anna, Giovanni ne è, di fatto, analizzato in un conflitto di interessi sempre più intricato.
Ricorrere a un supplemento di analisi o a una esperienza analitica nuova è la scelta più appropriata quando un analista si sente intrappolato nel transfert del suo paziente e a disagio profondo con i propri sentimenti. Non è tanto una carenza di esperienza o di tecnica che lo conduce in questa impasse quanto piuttosto una parte dei suoi desideri rimossi che non è stata sufficientemente analizzata in precedenza.
La dipendenza di Giovanni da Anna, capo del suo Istituto di formazione, non è affatto risolta e la rottura della loro relazione ha ottenuto il risultato opposto da quello che lui auspicava. Non ha approdato a una vera emancipazione, ha solo sospeso le questioni irrisolte del suo rapporto con lei. Il loro nuovo incontro non appare per nulla chiarificatore, conferma anzi lo stallo precedente e lo complica. Una supervisione non può durare otto anni senza creare una dipendenza dell’allievo dal suo supervisore. Riprenderla per trasformarla in un’analisi di fatto ma supervisione di nome, creare uno spazio analitico in cui l’analista è un maestro e l’analizzando un allievo è un errore che altera il significato stesso dell’analisi e la rende impossibile. Quanto Anna arriva a lavorare con la coppia di Giovanni e moglie, la confusione intorno al suo improbabile ruolo di supervisore, di analista e di analista di coppia della stessa persona diventa massima.
Non ci sorprende venire, nel corso delle puntate, a sapere che Giovanni è stato rigettato da Anna come erede del suo posto di capo del loro Istituto. Il fantasma di una relazione inconscia incestuosa tra madre e figlio (che sostituisce il legame di coppia tra il padre e la madre) ha già preso consistenza attraverso le molteplici messe in scena di un rapporto a tre che ruotano intorno al loro. In queste triangolazioni sono implicati: un altro paziente di Giovanni, Dario, che diventa provvisoriamente amante di Sara; una bella collega di Giovanni e di Anna che lui cerca di coinvolgere in una cena a tre nell’evidente intento di far ingelosire Anna e di reagire al suo turbamento per il legame tra Dario e Sara; un amico di Giovanni in analisi con Anna, con cui lei si è trovata nella stessa imbarazzante situazione di Giovanni con Sara; Eleonora, la moglie di Giovanni.
È Eleonora nell’incontro a tre con Anna a rendere esplicita l’irregolarità della situazione. “Mi sento a disagio in mezzo a voi due” dice ad un certo punto. “Smettetela di parlare in codice” aggiunge dopo poco.
Perché Giovanni ha portato la moglie “davanti a Anna” (secondo la sua espressione, confessione involontaria)? Per chiedere il permesso alla madre di avere una sua vita, per poter sposare finalmente Eleonora, coniuge in gran parte nominale e madre di suoi figli? Per chiedere, invece, ad Anna il permesso di sposare lei attraverso Sara, il suo simulacro giovane, e capovolgere in questo modo i rapporti di forza, invertendo il rapporto per lui schiacciante di madre-figlio nel rapporto padre-figlia (l’altra faccia della medaglia)?
Se Anna avesse deciso di fare l’analista di Giovanni avrebbe cercato di fargli capire la natura incestuosa del suo legame con Sara, di renderlo consapevole del suo desiderio di essere il paladino della sua sfortunata e debole madre (il figlio messianico che la redime). Avrebbe provato a farlo entrare in contatto con il suo desiderio di mantenere il proprio padre in un ruolo subalterno rispetto alla madre, Di fargli conoscere il suo tentativo di costruirlo come “mezzo padre”, figura che getta la sua ombra sul proprio sentimento di uomo e analista incompiuto.
Giovanni coltiva internamente un rapporto a tre in cui due uomini (lui e il padre) sono egualmente dominati dalla figura di una Madre arcaica e imponente, che risorge come Araba Fenice dalle sue ceneri (figura che egli ha sognato di ritrovare, con tutta l’ambivalenza del caso, in Anna).
Se Anna avesse voluto fare da supervisore avrebbe potuto insegnare alcune cose fondamentali al suo talentuoso ma travagliato allievo:
1. Il transfert erotico è un fuoco che l’analista non deve né spegnere né incoraggiare. Per fare questo deve ricordare che sotto l’impressionante fiamma che non riscalda (Amleto), che serve per fuorviare, c’è una parte del desiderio del paziente che lotta per restare accesa e sopravvivere. L’analista deve sapere che lui non è il destinatario di questo fuoco nascosto ma lo strumento che lo fa diventare un filo vivo di comunicazione con il mondo. Se l’analista si mette in mezzo il filo si interrompe.
2. Il transfert erotico di Sara viene da un luogo di abuso del suo desiderio. In questo luogo un suo oggetto erotico primario l’ha usata in modo antidepressivo, ha abusato della vita che era in lei per mantenersi eccitato e combattere la morte che lo invadeva (comportandosi come vampiro, non necessariamente consapevole). Che ama Sara in Giovanni? Un uomo (il padre) morto che deve rianimare, come lei stessa dichiara esplicitamente. Che cosa vede lui in lei? Una donna (la madre) a cui egualmente deve prestare la propria vita per rianimarla. Dove i loro desideri potrebbero incontrarsi veramente?
3. Se l’analista si astiene da invadere l’analisi con i propri sentimenti e le proprie vicissitudini (cosa che Giovanni fa ripetutamente dopo qualche riluttanza non proprio solida) non è per restare distante dal paziente né neutrale rispetto al suo destino ma per alcuni motivi irrinunciabili:
a. Non mettere in gioco molte variabili affettive ed emotive che diventa poi difficile gestire senza scivolare nell’onnipotenza e senza farsi idealizzare dal paziente (che resta poi inevitabilmente gravemente deluso)
b. Sospendere il suo giudizio personale sui vissuti del paziente: un suo ingresso diretto in campo con le proprie inclinazioni affettive rende impossibile la sospensione del giudizio. La sospensione del giudizio è necessaria per una comprensione del paziente che non resti imbrigliata nella superficie dei fatti, al di qua della verità nascosta sotto la censura delle valutazioni morali e la cecità di uno sguardo razionale che ignora gran parte del suo campo visivo. La sospensione del giudizio protegge inoltre la relazione analitica da gravi infrazioni dei limiti. Giovanni disapprova perentoriamente la relazione di Sara da adolescente con un uomo molto più anziano, imponendo il suo giudizio, senza aspettare che sia lei ad arrivare a una condanna personale dell’accaduto e censurando la parte del desiderio di lei che è rimasta invischiata in quella relazione; solo per infrangere volontariamente in momento successivo con le sue interpretazioni i limiti di una sua paziente adolescente (Alice), come lui stesso ammette e peggio, rivendica. Si mette in questo modo, a sua volta, inconsapevolmente nella posizione del carnefice.
c. Evitare che l’analista condizioni con il proprio desiderio e la propria memoria il desiderio dei suoi pazienti e la loro memoria.
d. Rendere per i pazienti possibile andare al di là delle convenzioni che regolano tutte le relazioni interpersonali quotidiane, per investire l’analista in modo affettivo profondo e fondato sulle le loro ragioni private e per poter usarlo secondo i loro bisogni indipendentemente dalle sue aspettative e volontà.
Anna non ha scelto tra fare l’analista e fare il supervisore e ha superato, con tutte le sue buone intenzioni di terapeuta aspirante al equilibrio e incline a un certo travaglio, i confini che avrebbe dovuto rispettare per essere utile.
6 maggio 2013