Elena Riva
Quante cose possono succedere in una sola seduta? Se, come osservavano Alice e Giovanni al loro primo incontro, la stanza d’analisi è una barca che veleggia in acque non sempre tranquille, nella terapia di un’adolescente spesso si naviga su mari in tempesta, fra sfide e riappacificazioni, intensi scambi emotivi e improvvise perdite di contatto, fra approdi tranquilli e repentini cambiamenti di rotta.
Il tema della quinta puntata, ops … seduta è annunciato dalla prima inquadratura, che vede Alice e sua madre discutere aspramente in sala d’attesa su quale delle due sia autorizzata a entrare: oggi si parla dei genitori nella psicoterapia degli adolescenti.
Il prologo di questa scena è nella chiusura della terza puntata, quando Mari telefona alla madre di Alice richiamandola alle responsabilità del suo ruolo e infrangendo una regola del proprio, quella della trasparenza nei confronti della sua giovane paziente. Un terapeuta più esperto di adolescenti avrebbe forse scelto di incontrare i genitori prima di conoscere Alice – Tommaso Senise lo raccomandava … – così da definire a priori le regole del rapporto con loro, e darsi l’occasione di confrontare i genitori reali dell’adolescenza, presenti e inevitabilmente conflittuali nella vita e nella terapia, con gli oggetti interiorizzati nel passato infantile.
La sceneggiatura della fiction non rivela ciò che è avvenuto prima dell’incontro fra Giovanni e Alice, non sappiamo chi ha chiamato per fissare l’appuntamento, né quale sia stata la sua richiesta; Alice è entrata nello studio con le sue braccia ingessate chiedendo una valutazione per conto terzi, e precisando a proprio nome di non essere, affatto, un’aspirante paziente.
A dispetto di questo incipit, il dott. Mari è riuscito nelle prime sedute a dar voce al dolore psichico controllato e nascosto di Alice; ha saputo – meglio che con i pazienti adulti, con cui fatica a regolare la distanza relazionale e a distinguere ciò che è loro da ciò che gli appartiene – creare uno spazio relazionale in cui accogliere questa ragazzina complicata, che solo sul palco, sotto le luci dei riflettori e lo sguardo ammirato del pubblico, si sente libera e sicura, mentre nella vita cerca contenimento e conforto in abbracci in cui sentirsi amata, spendendo le competenze seduttive di una femminilità agli esordi al servizio di bisogni infantili.
Giovanni riesce a “farsi scegliere” come terapeuta e Alice subito lo mette alla prova: quando si presenta fradicia all’appuntamento e gli chiede di aiutarla e spogliarsi, Mari vede il “pulcino bagnato” nascosto dietro la maschera della provocazione e della sfida, e accoglie la sua richiesta di accudimento facendo intervenire una madre sollecita, che ridefinisce il contesto relazionale in modo congruo ai bisogni di Alice.
Individuato il luogo e la relazione in cui esprimere i suoi nodi conflittuali, Alice alza il tiro nei confronti del suo “terapeuta promosso sul campo”, che in quell’unica seduta settimanale -davvero poco, ma come convincere una ragazza come Alice a concedersi/concedergli di più, senza farla sentire più pazza e bisognosa di quanto già non tema di essere? – risponde in modo “sufficientemente buono” alle sue provocazioni, entrando cautamente in contatto con il suo dolore psichico. Egli assiste così – e noi con lui – all’entrata in scena dei diversi personaggi del suo palcoscenico interno – il pulcino bagnato, la ballerina, l’adolescente arrogante o seduttiva – forse chiedendosi – come noi – se questi personaggi possano essere ancora considerati, in una prospettiva evolutiva, espressioni d’identificazioni di prova di una soggettivazione da compiersi, piuttosto che espressioni delle parti scisse di una personalità borderline.
Mari appare allarmato dagli agiti di questi personaggi in cerca di autore, di una funzione riflessiva capace, se non di allestire la regia del teatro interno, quantomeno di ricordare le parti di ciascun personaggio; lo preoccupano gli aspetti autodistruttivi delle loro rappresentazioni, non tanto all’interno della stanza d’analisi, dove è in grado di dotarle di significato, ma nella vita reale di un’adolescente lasciata troppo sola da adulti abusanti o trascuranti.
Tutto ciò, mi piace immaginare – ricorrendo anch’io, certo, all’identificazione empatica, o forse a quella proiettiva, come del resto ogni spettatore di fiction – occupa la mente del dott. Mari quando lascia il suo accorato messaggio sulla segreteria telefonica della madre di Alice.
Una regia sapiente consente, nella puntata intermedia fra la telefonata e l’entrata in scena di Irene, di sapere qualcosa di più sul suo rapporto con la figlia.
Un’Alice diversa da quella che abbiamo conosciuto, non più “ingessata” (in senso reale e metaforico) ma con i postumi della sbornia di una serata finita “a letto con uno sconosciuto”, racconta al suo psicologo che la madre ha reagito alla convocazione di Mari “come sempre, comprandomi vestiti”. Alice ancora indossa gli abiti della sera precedente e utilizza questo look per mostrare a Mari la femmina seducente che sua madre vorrebbe che fosse, una che porta “reggiseni push-up e scarpe rosse da shampista”, non certo il “giubbottino militare” che lei avrebbe invece voluto acquistare (magari anti-proiettile, per non rischiare di essere ancora ferita…)
Alice mette in scena di fronte a un analista attonito i suoi personaggi interni: si sdraia languidamente sul divano travestita da Lolita, piroetta leggiadra sulle punte, e conclude la seduta mettendo in scena in diretta un tentativo di suicidio, con l’inconsapevole complicità di Giovanni, che lasciando nell’armadietto del bagno gli psicofarmaci cui lui stesso ricorre in questa fase di crisi matrimoniale ed esistenziale, le consente di dubitare dell’adulto cui ha appena accordato fiducia.
In una settimana molto difficile sul piano personale e professionale, la seduta che il dott. Mari si accinge ad affrontare presenta parecchie questioni in sospeso.
Subito il marcato disprezzo e l’arroganza aggressiva di Alice nei confronti di Irene, che ansiosa si ritocca il rossetto prima di presentarsi al terapeuta della figlia, riapre il confronto fra modelli femminili. Alice vuol essere una ballerina, aspira a incarnare una femminilità eterea e leggiadra da conquistare con il controllo, l’impegno e il sacrificio, senza concedere nulla al corpo e alle pulsioni, e considera sua madre una donna depressa, vittimistica e lamentosa, responsabile dell’abbandono del marito e dell’inversione di ruolo con la figlia.
Le due hanno opinioni opposte sul fatto che Alice riprenda a danzare: Irene considera “la ballerina” colpevole del dolore e dello stress della figlia, Alice la ritiene la sua ancora di salvezza. Mari é chiamato a far da arbitro, ed è la posizione più difficile in cui ci si possa trovare nel conflitto fra un adolescente e i suoi genitori. Pur invitando senza titubanze la madre a entrare nello studio e a sedersi accanto ad Alice nonostante la marcata contrarietà di quest’ultima, pur solidarizzando e mostrando di comprendere le ragioni della madre, Giovanni si schiera dalla parte di Alice. Sa che la sua giovane paziente non potrebbe fare a meno del sostegno narcisistico che le deriva dalla danza, anche se non può spiegarne le ragioni a una madre che incontra per la prima volta, di fronte a una figlia che proprio non la vorrebbe nella sua stanza d’analisi. Quando Irene, irritata e sconfitta, esce di scena, confermandoci le insidie di un setting condiviso che obbliga il terapeuta a identificarsi con le ragioni di tutti e l’opportunità di demandare a un collega il lavoro con i genitori, Mari sembra sollevato.
Pur avendo lui stesso convocato Irene, non sa approfittare della sua presenza per analizzare le ragioni del conflitto fra madre e figlia e aiutarle a dirimerlo. Comprensibilmente turbato dal tentativo di suicidio messo in atto nel suo studio, sente l’urgenza di riparlarne con la paziente. Sappiamo dalla supervisione con Anna che considera – difensivamente? – il gesto di Alice come una prova che l’alleanza terapeutica ha superato; ma è a una frase a proposito dell’incidente sfuggita ad alice – “Ce l’ho fatta ad ucciderla!” – che Mari si aggancia per interpretare i comportamenti suicidali espressioni del desiderio di sopprimere la parte più fragile e bisognosa di sé, debole e abbandonata come la madre, per far trionfare la ballerina e anestetizzarsi da ogni dolore.
Riportare al centro della narrazione il tentato suicidio e interpretarne il significato affettivo è necessario e urgente perché Alice comprenda e si senta compresa, e il suo sguardo commosso mostra che le parole di Giovanni l’hanno raggiunta. Egli ne approfitta per chiederle di sottoscrivere un patto, ricorrendo a un parametro tecnico utilizzato, soprattutto oltreoceano, da chi lavora con pazienti suicidali; la richiesta di non mettere in atto comportamenti autolesivi per la durata della terapia è una prescrizione paradossale, che tutela i curanti più dei loro pazienti impegnandoli a rinunciare al sintomo per cui chiedono di essere curati per poter accedere alla cura. Più della prescrizione, per cui non s’impegna, è l’interpretazione della sua volontà di uccidere la parte debole di sé che profondamente disprezza e insieme di sopravviverle, che colpisce Alice. Il dott. Mari si allea con la parte di Alice che non vuole morire, con la ballerina di cui ha appena preso le difese contro le ragioni della madre, e tuttavia la invita a rinunciare all’anestesia emotiva che la protegge per poter affrontare le ragioni profonde del suo dolore. Per aiutarla a rinunciare alla difesa narcisistica la rassicura che la ama e le starà vicino, le promette disponibilità e dedizione, anche fuori dall’orario delle sedute. È un passaggio autentico e commovente quello in cui Giovanni afferma di non poter curare nessuno senza amarlo, ma anche una dichiarazione imprudente se rivolta a una paziente traumatizzata dall’abuso di una figura paterna. Non sorprende che Alice si spaventi e ritragga, anche se l’avvicinamento di Mari è scevro d’ambiguità, come notiamo confrontandolo con ciò cui abbiamo assistito nelle sedute con Sara, in cui la difficoltà a distinguere fra sentimenti reali e vissuti transferali e contro-transferali ha travolto e affondato l’alleanza terapeutica e l’intero processo analitico. Con Alice, Giovanni è se mai alla ricerca della sintonizzazione emotiva, della “giusta distanza” relazionale fra intrusione e abbandono che quest’adolescente violata e sola è in grado di tollerare.
Questa dichiarazione imprudente ottiene comunque il suo scopo: quello di evocare il Grande Assente, quel padre che Irene, nella sua breve apparizione, aveva accusato di trascurare Alice. Pur evidentemente arrabbiata, lei non aveva replicato, e questa inusuale reazione non era sfuggita a Mari. Nella narrazione di Alice suo padre è il solo che la ama e comprende, eppure si tratta di un padre lontano e irraggiungibile, neppure informato dell’incidente e del ricovero della figlia.
Il dott. Mari incalza Alice attaccando l’idealizzazione del padre e la svalutazione della madre: se la distanza è eccessiva, sostiene, le immagini diventano sfocate e la realtà può essere distorta. Non starà forse esagerando, ci chiediamo, e riuscirà questa ragazzina così fragile a reggere il confronto fra i suoi oggetti interni e i genitori reali? Ovvio che Alice si difenda e irrigidisca, si chiuda nel silenzio o ribatta irritata attaccando le competenze e il nuovo atteggiamento del suo terapeuta, assai più attivo e incalzante che nelle precedenti sedute. E tuttavia lui insiste, anzi sferra il colpo finale porgendo ad Alice un libro che giaceva sui suoi scaffali e su cui proprio lei aveva attirato la sua attenzione nel loro primo incontro.
Colpo di teatro? Forse sì, ma nei nostri studi spesso assistiamo a colpi di teatro. Di quel libro fotografico di nudi femminili il padre di Alice è l’autore. Invitata da Giovanni a prenderlo e sfogliarlo, lei gli urla furiosa: “Non toccarmi mio padre!”, e anche noi pensiamo che ora il dottore sta proprio esagerando: non si accorge che le stai facendo troppo male? Lui le rimane accanto come aveva promesso, non distoglie lo sguardo ma non demorde, si limita a chiederle se è davvero con lui che è arrabbiata: Alice si placa e i suoi occhi si riempiono di lacrime.
Mari ha superato la prova e l’alleanza di lavoro esce consolidata da questa turbolenta seduta. Mentre Alice si avvia all’uscita le chiede di nuovo di promettere di non farsi del male: lei borbotta un sì riluttante, che poi conferma con un gesto della mano.
Nella settimana più difficile della sua vita e del suo lavoro, in cui ha rinunciato a curare Sara rispondendo al suo abbraccio ed è esploso alle reiterate provocazioni di Dario aggredendolo fisicamente, il dott. Mari ha saputo essere profondamente empatico con il dolore di Alice, di cui ha attaccato le difese e interpretato i comportamento rimanendo sempre sintonizzato con i suoi sentimenti profondi.
Davvero bravo, Giovanni!
3 maggio 2013