In Treatment – seconda stagione – 4° settimana
Commento di Franco D’Alberton
La cassetta degli attrezzi dell’analista (una visione “critica”)
L’estate scorsa a Boston, al congresso dell’International Psychoanalytic Association (IPA), Virginia Hungar, che nel 2017 succederà a Stefano Bolognini alla presidenza della società fondata da Freud che raccoglie più di 18000 tra psicoanalisti e candidati dei cinque continenti, ha svolto una interessante relazione sulla “Cassetta degli attrezzi del mestiere di analista”. Ogni analista infatti costruisce nel tempo la cassetta degli attrezzi più consona al proprio stile di lavoro, ai propri riferimenti teorici e alle proprie attitudini personali. Secondo la Hungar, in questa cassetta non possono mancare “la nozione di inconscio, di transfert, il concetto di neutralità analitica e di associazioni libere”. Strettamente connesso al concetto di neutralità analitica è il dispositivo del setting, cioè quell’insieme di norme e regole che ogni analista usa per definire lo spazio analitico. Esso consente di aiutare il paziente a comprendere come nelle vicende della vita attuale vi sia una tendenza a ripetere configurazioni relazionali che derivano dalle relazioni precoci con le figure di riferimento. In questo modo si può tentare di distinguere cosa appartiene all’analista, cosa all’analizzando, cosa alla relazione tra i due; in altre parole, analizzare il transfert.
Nel corso di questa settimana cercheremo allora di capire da che cosa è composta la cassetta degli attrezzi del dott. Mari.
Se il buon giorno si vede dal mattino, la quarta settimana non inizia nel migliore dei modi. Alle otto del lunedì mattina si vede piombare nel suo studio Irene, in stato ipomaniacale. Visto che manca l’acqua sul tavolino – quanti studi di psicoterapeuti hanno acqua e bicchieri per i pazienti? – Irene entra nella cucina, apre dispense e frigorifero. Nel corso della seduta verranno fatti dei tentativi per trovare un senso nelle motivazione inconsce delle continue ripetizioni di situazioni nelle quali Irene cerca l’attenzione, la complicità e l’interesse di uomini legati ad altre donne o non disponibili a rapporti stabili. Mari prova a dare qualche interpretazione sul bisogno di Irene di violare gli spazi degli altri per sentirsi speciale; fa qualche riferimento, poco credibile, al transfert e ad una qualche connessione con una fantasia edipica di vicinanza ad un padre legato ad una madre allontanante. Irene sembra in grado di parlare liberamente su quanto le è successo, interrotta frequentemente da interventi del terapeuta che più sensibilmente avrebbe potuto evitare lasciando fluire il corso delle sue associazioni. L’episodio prende lo spettatore, cattura l’attenzione “malgrado Mari”, si potrebbe dire.
La seduta del martedì inizia con un: “Ciao Giovanni, come va?” E’ il saluto di Lea, la mamma di Mattia. Mi domando: – ma da quando in qua si chiama per nome e si da del tu al proprio terapeuta?-. Lea è carica di valigie e continua dicendo: “Non sappiamo dove andare, possiamo stare qui da lei per un po’? Non riusciamo più a pagare il mutuo”. Momento di tensione: “è uno scherzo”, afferma Lea: sollievo generale ed inizia la seduta. Qui forse qualcuno avrebbe potuto chiedersi di quale mutuo interiore fossero le rate che Lea non si sentiva in grado di pagare e cosa esprimesse il bisogno di trasferirsi a casa del terapeuta.
Il dott. Mari avrà modo di rendersi conto quanto poco scherzoso fosse il progetto di sistemare Mattia a casa sua quando, al termine della seduta, il padre non si presenta e lui è costretto (?) a disdire al citofono la seduta del paziente successivo. Mattia, lasciato dalla mamma a un papà che in quel momento non è presente, dice di avere una gran fame. Qualche riferimento avrebbe potuto essere fatto al bisogno di mangiare come risposta a sensazioni di solitudine e abbandono; il dott. Mari gli prepara un panino, “al formaggio – va bene?”.
Mercoledì, con Guido, Mari non tollera proprio di assumere il ruolo di una presenza con le caratteristiche negative che gli attribuisce il paziente, cosa che sarebbe utile a comprendere meglio l’atteggiamento del sig. Guido nei confronti degli altri. In una forte immedesimazione con lui, il dott. Mari deve sempre caratterizzarsi come il buono della situazione “sono molto arrabbiato per quello che le stanno facendo” e gli racconta le sue disavventure giudiziarie provocando un motivo che ricorre spesso: è il paziente che si prende cura di lui.
Nella seduta di giovedì, dopo aver preso le difese della segretaria del Centro tumori, sostenuto la tesi di una rapida individuazione di una cura per l’autismo, e altre amenità del genere, per una volta si oppone al ruolo che Elisa gli aveva affidato e con una iniziativa opinabile, ma almeno con un buon fine: la accompagna all’ospedale per iniziare la chemioterapia.
La seduta più interessante è quella del venerdì, dove si può vedere un terapeuta al lavoro: Anna. Con un atteggiamento paziente che segue il flusso dei pensieri di Mari, Anna accetta il ruolo che le viene assegnato, aiutandolo a comprendere come la realtà possa essere diversa da come lui l’aveva organizzata nel suo mondo interno. Giovanni Mari sembra aver vissuto con una mamma depressa di cui aveva dovuto prendersi cura fin da molto piccolo e con un papà da cui si era sentito abbandonato e verso cui prova ancora una profonda aggressività.
Degli strumenti del mestiere individuati da Virginia Hungar, nella cassetta degli attrezzi del Dott. Mari sembrano essercene ben pochi. La motivazione principale del suo lavoro sembrerebbe il bisogno di essere utile a qualcuno e la necessità di definirsi diverso da adulti poco attenti alle esigenze di un bambino. Una profonda e inconscia immedesimazione con i suoi pazienti, lo porta a soddisfare le loro esigenze e, attraverso quelle, le sue, spesso chiedendo loro implicitamente di prendersi cura di lui, come lui, da piccolo, aveva dovuto prendersi cura di sua madre.
Gli attrezzi dl mestiere di analista non sono acquisibili solo con lo studio, l’intelletto o la volontà, sono strumenti che diventano “incarnati” in un lungo e faticoso percorso che, attraverso un’analisi personale e un training con momenti istituzionalizzati di controllo, portano una persona a cogliere in sé i motivi che lo portano ad affrontare una professione così impegnativa e carica di rischi professionali. Solo un lavoro su se stessi che dura quanto la propria vita professionale, rende possibile il contatto con le persone che si rivolgono a noi distinguendo il più possibile tra i problemi nostri e quelli dei pazienti. Questo non vuol dire che l’analista sia una persona esente da difficoltà emotive di qualche tipo, però un paziente e attento ascolto delle proprie aree critiche consente di contenere i rischi che attraverso complessi giochi di immedesimazione con l’altro, un terapeuta finisca per curare se stesso curando gli altri. Oppure che, avvertendo inconsciamente di essere portatori di desideri istintuali di amore o di aggressività che si teme abbiano potuto ledere irreparabilmente la relazione con le persone significative del nostro passato, si cerchi di evitare che ciò continui ad avvenire nell’attualità con una dedizione alla cura del prossimo, mantenendo così in vita la speranza che non tutto sia irreparabilmente perduto. Per tenere a bada questi rischi nella formazione dello psicoanalista, solo dopo un consistente periodo di analisi personale l’analista in formazione è autorizzato a prendere in cura dei pazienti con la supervisione di uno psicoanalista esperto con cui può confrontarsi sull’andamento dei primi trattamenti; il dott. Mari sembra lo stia facendo in un momento avanzato della sua vita professionale.
Si intuisce che gli autori hanno una profonda conoscenza del mondo psichico e dei suoi movimenti, ma sembra che siano costretti da tempi ed esigenze sceniche a mettere in scena una “rappresentazione” del lavoro di uno psicoterapeuta. La mia ipotesi è che abbiano convocato nella scena la Società Italiana di Psicoanalisi soprattutto per esigenze narrative, dal momento che probabilmente non tutti gli analisti della SPI si riconoscerebbero nella pratica del dott. Mari. Egli sembra rappresentare un artefatto narrativo per dare un ritmo adeguato alle necessità televisive a un processo che in realtà si svolge necessariamente con tempi e modalità diverse. Sembra a volte rappresentare un interlocutore interno del paziente che aiuta ad articolare i dialoghi e lo svolgimento della scena. Il risultato raggiunto è buono, trasformazioni psichiche prendono luogo e condizioni di sofferenza si attenuano. Attori di grande talento mettono in scena un prodotto fruibile e credo di successo riuscendo ad attirare interesse sulla complessità della psiche umana; di questo possiamo essere loro grati senza storcere troppo il naso.