Giovanna Montinari
Profetiche le parole del collega D’Alberton che nel suo bel commento, sottolinea che non si prospettava nulla di buono quando, al termine della precedente seduta, Giovanni telefona alla madre di Alice, fino a quel momento fantasmaticamente presente, ma non attiva e resa consapevole, delle difficoltà della figlia.
Non posso che essere d’accordo: convocare un genitore senza averlo concordato con l’adolescente è una delle operazioni che più mette a rischio la relazione terapeutica neo-nata e soprattutto risulta essere una operazione che non sappiamo dove ci porterà nelle sue conseguenze.
Siamo di fronte ad uno dei nodi più controversi e difficili della terapia con gli adolescenti, sul come e quando coinvolgere i genitori ( e in questo senso dov’è il padre di Alice?). Sappiamo che ci muoviamo fra lo Scilla della necessità, mossa dalla preoccupazione e dalla importanza di stabile una alleanza di lavoro con gli adulti che ruotano intorno agli adolescenti e il Cariddi della delicatezza dell’equilibrio narcisistico dell’adolescente, che non vuole essere messo di fronte alla sua ambivalente necessità di soggettivarsi anche attraverso l’uso dei suoi oggetti genitoriali. Oggetti peraltro, inattendibili, spesso francamente malati e a loro volta bisognosi di sostegno narcisistico.
Non nascondo che la seduta che mi trovo a commentare mi ha fatto ballare e tremare fin dai primi fotogrammi. Grazie alla bravura dell’attrice, si coglie subito nella trasformazione in “ femmina fatale “ di Alice un che di sinistro, falso e caricato che, appunto, non fa presagire nulla di buono. Che è successo? Alla perdita del contenimento, richiesto a gran voce (potremmo dire a gran gessi), Alice felice della libertà ritrovata, subito ci fa capire che intende appropriarsi, assumere il controllo attivo di quello che ha subito a causa dei suoi profondi bisogni di accettazione e accudimento. Sembra la ben nota maniacalità adolescenziale che trasforma i vissuti attraverso gli agiti, ma si intravede l’effetto depressivo dell’essere stata di nuovo ingannata: la madre non si è avvicinata a lei perché ne ha colto il bisogno, ma l’ha fatto perché il terapeuta l’ha chiamata e fatta sentire in colpa e lei, la madre, “ è esperta nel compatirsi”.
Personalmente mi sono disperata “empaticamente” quando è apparso chiaro che ancora una volta, gli adulti hanno agito per un loro bisogno di rassicurazione e conferma. La madre spinge Alice verso un modello femminile e sessuale posticcio, falso, eccitatorio, precocemente sessualizzato, non ascoltando il bisogno della figlia di esplorare, cercare un suo modo di esprimere femminilità o anche di schermarla (il giubbetto), almeno per ora, quando non ha l’ausilio della danza. Giovanni, afferma candidamente che l’ha fatto perché era preoccupato e sappiamo bene quanto questa frase faccia incazzare un adolescente (l’adulto che afferma “l’ho fatto per il tuo bene”). Tuttavia Alice coglie la sua autentica preoccupazione; del resto è evidente che lei l’ha appena eletto a suo terapeuta, e ne ha molto bisogno. Nel rimproverarlo si coglie la sua ambivalenza, come se gli dicesse “ hai fatto bene, ma ora vedrai….”
Definirei questa seduta “la svolta”; il vero passaggio dalla consultazione alla presa in carico non avviene forse quando il paziente ci rende partecipi del vero stato dell’arte del suo sviluppo, quando possiamo dire che si affida a noi, ci usa nel transfert come l’oggetto vecchio/nuovo che gli permetterà di riavviare il suo sviluppo?
Mi verrebbe da dire, come un adolescente, “belle parole”, non sono favole (vedi il mago di Oz), ma piuttosto si tratta di stare e condividere con tutti noi stessi quello che sta accadendo nel mondo interno/esterno, per dirla con Jammet, dell’adolescente. Giovanni recupera, per nostra buona pace, incalza e partecipa con Alice nel farle ripercorrere il trauma che ella si è procurata per gestire un altro trauma più profondo e doloroso. Ben si coglie e si capisce come gli adolescenti possano farsi male per non sentire il dolore insopportabile della mente, del vuoto, della perdita e separazione che li getta nelle “agonie” senza nome e intollerabili, della mancanza di holding e calore di cui hanno ancora bisogno. Quale? Che nome dargli? Come trovarlo alla luce della pubertà che spinge fra corpo e mente a lavorare fra un corpo idealizzato e dissociato che “non sente niente” e un corpo “vivo” partecipe che tuttavia è stato violato, segnato e che fa sentire Alice vista dal ragazzo con cui cerca di normalizzarsi, come una segnata dall’abuso.
E’ il fallimento del tentativo di attrezzarsi, dopo essersi anestetizzata con l’alcool, ad una normalità adolescenziale che le risulta preclusa, a spingerla ad agire nel bagno di Giovanni, a questo punto, a ripetere il tentato suicidio? Oppure, Giovanni nel sostenere l’importanza del condividere il trauma con lui l’ha messa di fronte ai suoi bisogni più regressivi e infantili di cui Alice si vergogna?
Intensissime le emozioni che si provano al racconto dell’incidente e della sua dinamica profonda. Alice pone ancora la domanda: “mi volevo uccidere?”. Ma chi voleva uccidere? La bambina/donna che aveva subito l’interesse manipolato di Samuele? Emma la bambina con cui era profondamente identificata che con la crisi d’asma segnalava l’angoscia mortifera per la separazione dalla madre? Giovanni cerca di rispondere con la partecipata competenza dell’adulto, ma, a mio avviso, rischia anche se ammette “che non è così semplice”, gira il coltello nella piaga quando sottolinea che “è solo nostalgia di casa”. Perché viene da domandarsi se mai una casa c’è stata.
Il richiamo alla difficoltà della cura degli adolescenti suicidari riguarda il bagaglio, le attrezzature infantili con le quali la pubertà si confronta: se c’è stato un precoce stato di vuoto, di sviluppo di un falso sé winnicottiano, necessario per la sopravvivenza, è molto pericoloso esporre il vero sè al bisogno, allo sviluppo puberale e il vissuto di vergogna, di inaccettabilità del corpo che diventa stuprato/mostruoso, può portare all’uccisione del corpo reale facendo sentire l’adolescente libero di volare e leggero di poter riprendere a respirare. La posta in gioco è altissima, pericolosissima e Giovanni sembra ricorrere alla self-disclosure per mantenere la relazione terapeutica con Alice. Giovanni sente che qualcosa gli sfugge e ne è preoccupato. La figura del terapeuta emerge in tutta la sua poliedricità: a volte è padre, lo sguardo affettuoso e divertito che dice “non sapevo che cambiavo paziente” a fronte della trasformazione di Alice; a volte è madre come Alice lo fa diventare quando lo attacca, gli dice che non capisce niente mentre gli sta proponendo tutta la sua passività e il suo bisogno di affidarsi…..fare questo gesto nello studio del terapeuta non è in fondo essere sicuri che lì qualcuno capirà, raccoglierà, vedrà che si sta per morire d’amore, di nostalgia e paura?
Insomma avrete capito che questa puntata non può che coinvolgere ai livelli più profondi il nostro, come direbbe R. Cahn, “essere” psicoanalisti degli adolescenti piuttosto che “fare” gli psicoanalisti. Ci sollecita come psicoanalisti a non sottovalutare l’importanza di porsi domande sul come e quando un adolescente ha un incidente. “Le ali di Icaro”, per dirla con P. Carbone, fanno sì che le strade corrano incontro al ragazzo, il SUV gli vada addosso, il “ botto” diventi un volo che cancella tutto. Dopo, “a botta calda”, se ci si pone in ascolto, se si fanno le domande giuste, emerge che l’adolescente aveva avuto un lutto, un grande dolore e dispiacere o un fallimento. Grande merito dunque a Giovanni di aver avuto un ascolto analitico alla richiesta del mero certificato che di fatto rappresentava una attestato della volontà o meno di vivere di Alice.
Un aspetto interessante per la nostra discussione riguarda, e in questo episodio mi sembra più evidente che in altri, il tema della formazione dello psicoanalista fra adulti, adolescenti e bambini, la specificità del funzionamento della mente adolescente, i suoi repentini passaggi e soprattutto il registro dell’equilibrio narcisistico connesso alla vergogna che ne può conseguire. Sono territori difficilissimi con i quali gli adolescenti chiamano i loro terapeuti a cimentarsi: è sempre una questione di vita e di morte, fra l’ideale e il reale, fra infanzia e adolescenza fra perdita e ritrovamento.
Dopo la partecipazione emotiva, il pensiero critico, che spesso questi episodi hanno il pregio di sollecitare e superata la resistenza di vedersi rispecchiati senza veli, non resta che porsi la domanda “che avrei fatto io?”, “ come sarei stato fuori da quella porta ad aspettare Alice”?.
Concludo con le parole di Mari…..”non la farei così semplice”.
26 aprile 2013