In treatment – seconda stagione – 3° settimana
Il posto delle emozioni
Valentina Nuzzaci
Irene è piena di odio. Il Dott. Mari le deve un bambino.
Mattia è confuso, perché i suoi genitori (Lea e Pietro) non riescono a uscire dalle loro dinamiche a due. Per ora lui resta fuori dalla seduta la maggior parte del tempo.
Guido è sconvolto. Lavinia (la figlia) lo ha allontanato. Ha tagliato i suoi bellissimi capelli e si è persa in India. Lui non la trova più tra le sue cose, nel suo immaginario (la confusione che si può cogliere nell’attribuire al padre o alla figlia gli aggettivi possessivi è evidenza della problematica che porta il paziente).
Elisa è rabbiosa. Non può piangere, essere malata, avere paura.
Il Dott. Mari si è trasferito in un altro studio, che continua ad avere una porta che delimita il suo spazio professionale da quello personale.
La storia con Sara, il processo per la morte di Dario, la separazione dalla moglie e dai figli sono ferite sanguinanti e sembrano le macchie rosse che segnano il suo rapporto con i pazienti, le sue parti abortite che porta nel lavoro con loro (nella prima stagione Lea abortisce nello studio di Mari). Queste macchie rosse, insieme alla sua macchia nera, nell’aver rimosso il ricordo della presenza del padre quando la madre ha tentato il suicidio, sono il materiale che Giovanni porta da Anna. Il loro rapporto, come quello visto due anni fa, continua a essere poco definito tra l’essere supervisione e terapia. Giovanni ha bisogno di parlare ad Anna dei suoi pazienti, ma soprattutto di sé.
Anna ha fatto delle modifiche nel suo studio, ha ripreso a vedere pazienti, dopo la parentesi del suo libro. Alcune cose sono cambiate. Giovanni sta vedendo dei nuovi pazienti ed ha altri dubbi che lo riempiono. Sembra, però, tornare anche questa seconda volta da Anna come fa Irene con lui. Anna gli deve una lettera (il riconoscimento come allievo-collega).
Prima di arrivare a parlare dei suoi pazienti Giovanni ha bisogno di portare le sue emozioni, poter piangere.
In questa terza settimana, i pazienti sono molto carichi. Il Dott. Mari, dopo la confusione vissuta nella prima settimana, è in caldo ascolto.
Lunedì, contiene gli attacchi di Irene. Il suo parlare di Sara è superficialmente provocatorio. La paziente si sente indesiderata e l’analista le fa vedere come abbia bisogno di comprensione, vicinanza, conforto, che la facciano sentire viva e non un aborto. L’invio a un’altra collega non è stato sufficientemente elaborato. La paziente lo ha vissuto come un rifiuto, un aborto di terapia, che ora può avere la possibilità di portare ad un nuovo concepimento di sé.
Martedì, aiuta Lea e Pietro a vedersi, ascoltarsi. Due anni fa sono andati alla “clinica della coppia” ma poi la terapia è abortita, senza che ci fosse lo spazio per poterne parlare. Lea vorrebbe tornare con Pietro, che dice di aver scoperto di desiderare altro con le parole, ma ricorda ancora l’angoscia costante vissuta nella paura di essere tradito. Per come sono, non si sentono genitori che sanno fare figli. Forse anche Mattia è stato fatto senza che ci fosse un desiderio condiviso. Hanno bisogno di essere aiutati a sentire e comprendere quello che provano per aiutare il figlio. Mattia li ascolta e può dormire solo se sente che i suoi genitori stanno facendo un lavoro insieme.
Mercoledì, mostra a Guido il suo bisogno di controllo e come questo suo bisogno nasca dalla sua storia familiare. La morte del fratello e il vuoto lasciato non hanno permesso che vi potesse essere spazio per lui. Sulla figlia ha proiettato desideri e attese, che la distanza ha reciso, mandando nel panico Guido.
Giovedì, accarezza Elisa con la mano e le sue parole. La porta di nuovo su quel palazzo dei ricordi. La guarda cadere, si preoccupa e la invita fermamente a curarsi. Da genitore-analista la rassicura e la porta a pensare a sé, ridefinendo i ruoli. La malattia del fratello ha occupato e preoccupato tanto tutta la sua famiglia e non sembra esserci spazio per null’altro. Se si va in vacanza, ci si distrae, ci si ammala si può far male all’altro, farlo regredire evolutivamente ed emotivamente. Esprimere emozioni fa diventare egoisti, brutte persone. Il Dott. Mari, con un altro intervento-carezza, le mostra come provare emozioni contrastanti non sia una colpa, permettendole di esprimere sentimenti indicibili, come la gelosia.
Venerdì, con Anna parlano, per la prima volta, solo di lui. Non viene fatto cenno ad alcun paziente. Mara gli ha ricordato il passato. Giovanni è rabbiosamente confuso. Ha sempre pensato che il padre fosse un uomo egoista, assente, che non ha mai fatto nulla nella vita (per stessa ammissione del padre). Anna lo ascolta e gli interpreta la possibilità che queste fossero proiezioni materne, sposate da Giovanni, per tradire, abbandonare, la madre cercando un modo, un’occasione, condividendo una passione con il padre, che potesse creare un legame con lui.
La storia di Giovanni e dei suoi pazienti mostra un essere figlio responsabile e precocemente adultizzante. Le emozioni non possono essere espresse perché fanno del male agli altri, farebbero loro spalancare gli occhi.
Qual è posto dunque possono avere le emozioni? Forse uno, nessuno e centomila.
Le scene della vita e la scena in seduta hanno personaggi in cerca di autore. Il lavoro dell’analista è quello di accogliere, comprendere, cercare il paziente tra attacchi, nascondimenti, fughe, ricordi, sogni e cose non dette. Tutto ciò che porta il paziente è nella stanza, che sia astratto o concreto (Irene porta la sigaretta elettronica e la testimonianza di Sara; Mattia porta i suoi genitori e Fedez; Guido le valigie; Elisa il plastico della casa del cinema). In quella stanza si è però almeno in due. C’è anche l’analista con le sue cose, al di là della porta della sua professione.
La terapia è l’invito a un doppio, scambio, spesso vissuto dal paziente con ambivalenza. Entrare e analizzare il proprio mondo interno, toccare le emozioni spaventa. Fa male?
L’analista può essere visto come: un uomo; un erogatore di consigli, risposte, soluzioni; un salvatore; uno che prende un fatto, poi ne prende un altro. Poi li mette insieme, fa un paragone e basta (come dice Guido); un ballerino con gli occhi aperti in un passo a due… Queste sono le fantasie, desideri, timori dei pazienti, con cui l’analista lavora e poi c’è l’analista in carne ed ossa, il suo lavorare con il modello che lo guida e il suo essere una persona.
Anche in questa seconda stagione di In Treatment, regia, sceneggiatori, autori, attori… hanno realizzato una rappresentazione viva e interessante di quello che si può immaginare accadere nel lavoro tra analista e paziente. Uno scambio privato in cui due persone parlano liberamente, in cui può esserci lo spazio per provare, esprimere e riconoscere ciò che siamo abituati a nascondere o mostrare sotto mentite spoglie altrove.
Colpisce leggere nelle interviste degli attori, della prima e seconda serie, l’entusiasmo dell’esperienza vissuta e il desiderio di volerla replicare, se vi fosse una nuova stagione.
Intanto… alla prossima settimana!