Franco D’Alberton
Alice, in questa puntata, arriva con una “sorpresa”: avrebbe dovuto toglierli e invece oltre ai gessi alle braccia porta anche un collare ortopedico perché non muoveva il collo dopo aver dormito una notte sul divano in salotto. Erano andati a trovarla i cuginetti e la mamma aveva pensato di farli dormire nella sua camera. “Allora da qualche parte c’è una mamma! – mi trovo a pensare – anche se è una mamma che fa spostare Alice dal suo letto per dare la sua camera ai cuginetti”.
Ha con sé un regalo di addio per il dottore, affermando che quella sarebbe stata l’ultima seduta – “avevamo detto tre sedute no ?”
E’ un regalo adatto a lui, un modellino di barca a vela. Alice, infatti, dimostra una grande capacità di immedesimarsi nell’altro, non solo nel coglierne i gusti, gli interessi e i bisogni, ma anche mettendosi al suo posto, assumendone il ruolo. Come avviene, nel corso della puntata, in una sorta di gioco in cui chiede di sedere nella poltrona del terapeuta e che lui sieda nella sua. Il dott. Mari accetta e interpreta questo scambio di ruoli come il desiderio di Alice di far provare a lui come lei si senta nel ruolo di paziente: “sotto interrogatorio? minacciata? forse spaventata per il fatto che quella possa essere l’ultima seduta?”. Forse, però vi è soprattutto la messa in atto di una sua particolare strategia psichica difensiva: non potendo contare, sia nel mondo interno che nella realtà esterna, su figure genitoriali stabili e ricettive, si mette nei loro panni; diventa lei l’adulto, il genitore, il terapeuta, prendendo così le distanze dall’esperienza di sofferenza che sta vivendo.
Negli scambi che seguono si attua un momento fondamentale, il viraggio tra la iniziale richiesta di una valutazione e l’avvio di una terapia: ”se volessi potremmo prenderci più tempo, andare al tuo passo”, le propone il dott. Mari.
Implicitamente Alice accetta: “diciamo che sono in terapia” e, ritornata al suo posto di paziente, parla dettagliatamente della crisi della relazione con i genitori e della loro incapacità di prendersi adeguatamente cura di lei.
L’aver spostato il focus sulla richiesta di aiuto per un disagio emotivo piuttosto che sulla stesura di un certificato che attesti o meno “se abbia cercato di suicidarmi” non sposta la questione se Alice abbia reagito ad una grande sofferenza con un tentativo di suicidio.
Se una precaria dotazione emotiva di base non consente all’adolescente di sostenere la sfida dei momenti di solitudine, di frustrazione, di cambiamento tumultuoso può accadere che venga superata quella linea sottile fra la sfida al caso, la perdita di speranza, il collasso del pensiero e l’irreparabile.
Soprattutto quando relazioni genitoriali assenti, precarie o patologiche non sono in grado di fornire ascolto, argine e confine ai bisogni affettivi e alla dirompente istintualità dei ragazzi. O quando episodi dalla potenzialità traumatica gettano l’adolescente nella confusione e nell’agitazione e possono sfociare in incidenti più o meno voluti; quando, per usare le parole del Dott. Mari, uno stato di stress “può portare a non essere presenti a se stessi”.
Intuendo sullo sfondo un “troppo vuoto” di base emotiva identitaria e di supporto parentale e un “troppo pieno” di sensorialità, dove la sessualità nascente si mescola a bisogni affettivi, il dott. Giovanni Mari ha cercato di cogliere e di non lasciar cadere il filo di comunicazione che rende l’incontro con una persona che sa ascoltare un’occasione irripetibile per un adolescente in difficoltà.
Dal punto di vista del terapeuta ciò richiede una grande competenza e un’altrettanto grande disponibilità a mettersi in gioco personalmente, muovendosi fra una rigidità tecnica che allontana e una elasticità eccessiva che toglie la possibilità di porsi come interlocutori credibili.
La creazione di una cornice stabile, che affranca l’adolescente dalla fantasia di incontro con un adulto che lo imprigiona o che lo vuole coinvolgere in un seducente scambio di eccitazioni è uno dei primi obiettivi della relazione terapeutica, la cui stabilità consentirà nel tempo di sostenere gli inevitabili alti e bassi, i contrasti e le vicinanze eccitanti o terrificanti.
Verrà così alla luce, nella storia di Alice, una vicenda di trascuratezza (neglect) alla quale essa ha cercato di reagire. Se il naufragio della sua famiglia le ha lasciato alle spalle una mamma depressa e un papà assorbito nella perenne ricerca di se stesso, nel disinteresse generale, Alice ha provato a cercarsene un’altra. Anche in questa nuova realtà affettiva, si assume la responsabilità di far funzionare le cose, prendendosi anche cura della bambina della coppia che la ospita. Con un ennesimo ribaltamento dei ruoli –è lei che diventa l’adulto- a fronte del compito impossibile che si è proposta, avverte costantemente la sensazione di non esserne mai all’altezza e vive un perenne sentimento di colpa, attribuendosi, ancora una volta, la responsabilità del fallimento dell’ambiente che la circonda.
Con una nuova crisi di coppia sullo sfondo, si troverà invischiata in una relazione promiscua che la porterà a superare il limite fra la tenerezza e la sessualità e a vivere l’esperienza dell’abuso, rispetto al quale si proteggerà ricorrendo a difese dissociative “non ho sentito niente, come se non fossi neanche li” o chiudendosi in un mondo di fantasia piroettando su se stessa nel palco, l’unico posto in cui si sente sicura.
L’intensità della sofferenza che Alice sta vivendo in un ambiente in cui nessuno vede e dice le cose come stanno, porta il Dott. Mari a convocare nella scena la mamma. L’episodio si chiude infatti con il dottore che lascia un messaggio nella sua segreteria telefonica, all’insaputa di Alice. Un coinvolgimento genitoriale a mio parere doveroso, ma che non lascia presagire nulla di buono e che avrebbe dovuto essere stato fatto fin dall’inizio di un trattamento di una quindicenne, e alla luce del sole.
18 aprile 2013