Il punto di vista di Giovanni
Chiara Napoli
Aspettavo con trepidazione la puntata. Leggendo i commenti ‘autorevoli’, avevo visto con gli occhi degli altri gli incontri del dott. Mari di questa prima settimana. Mi chiedevo cosa dovesse succedere oggi, che cosa portasse il nostro analista in supervisione così all’improvviso dopo otto anni. ‘Perché sei qua?’ chiede ripetutamente Anna, la supervisora. Per Eleonora (la moglie), per Sara (una delle sue pazienti), per il suo lavoro, per la sua vita? Perché è lì, il dott. Mari? Lui parla del bisogno di un ‘pubblico’, ma anche di qualcuno che lo fermi dall’agire le sue emozioni. Qualcuno che gli eviti di sentirsi solo: onnipotente e al contempo fragile. Che può decidere come va la vita, ma anche come si possa abortire la propria vita. Qualcuno che ammiri, che guardi quanto è grande, quanto è diventato grande, in un momento in cui forse le cose invece gli sembrano scivolare dalle mani. Difende strenuamente la sua capacità di vedere, di vedere bene, quando invece la puntata racconta di un rimescolio di ruoli, situazioni… La vita affettiva dell’analista si intreccia costantemente a quella professionale. Ma anche la supervisione sembra confondersi in un rapporto, troppo spesso, al limite tra l’amicale e il professionale. Penso all’enactment, così come lo definisce Steiner (2000), ‘quella zona grigia tra normale tecnica, errore tecnico e violazione non etica dei confini’. E penso anche a quante volte interpretiamo i ruoli che i pazienti ci chiedono di indossare. Quante volte, quando ci arrocchiamo dietro alla presunzione di aver capito, invece ci troviamo a solcare strade tracciate per noi. E agiamo qualcosa di cui non siamo affatto consapevoli. Mi viene in mente una seduta di supervisione, quando, dopo una mia troppo prolissa introduzione ai trascritti della settimana, mentre mi domandavo perché avessi raccontato tutte quelle cose di me, fu evidente dalla lettura del materiale che la mia paziente si dibatteva in dinamiche di incontinenza. E quella era esattamente la stessa sensazione che avevo io.Ecco. Penso di nuovo al bisogno di un ‘pubblico’, che e’ tanto più presente in noi tanto più non riusciamo a sentire un nostro pubblico interno, bussola della nostra relazione col paziente. La necessità di sentire qualcuno che applauda fuori, in parte, potrebbe corrispondere a una nebbia dentro, a un’impossibilità nostra di sentire, legata a quel paziente, con quelle specifiche caratteristiche, in quel momento della nostra vita. E torno all’enactment. Penso che momenti di fragilità, o aree non del tutto dissodate siano presenti in tutti. Penso che la ricerca di un pubblico che ammiri, che guardi quanto sei diventato grande, anche. Ma credo ancora, che la supervisione sia proprio quel posto in cui separare ciò che è nostro da ciò che accade al nostro paziente; ma la supervisione non è una terapia. Il rapporto tra Giovanni e Anna lascia intravedere una relazione intima, di lunga data, connotata da grande confidenza, ma anche da aspri attriti. Da recriminazioni. E mi capita in mano, proprio in questo weekend – di training – quell’articolo di Ogden (2009) ‘Leggere Loweald’, in cui viene messa in luce una naturale ‘spinta all’emancipazione’, “un’appropriazione appassionata di ciò che è sentito come amabile e ammirevole nei genitori. In un certo senso, la morte fantasticata dei propri genitori edipici e’ un danno collaterale nella lotta del bambino per l’indipendenza e l’individuazione.” (pag. 215). A me così appare Giovanni: il suo allontanamento da Anna, molto tempo fa, a me suona un po’ come l’eliminazione del genitore analitico, che solo così può consentire l’individuarsi. Solo così può diventare qualcosa d’altro. Però a questo punto mi chiedo: questo, quanto ha a che fare coi pazienti di Mari? Se in supervisione deve esserci il paziente e non l’analista paziente, di cosa si tratta questo incontro? Forse è proprio così che si torna alla nebbia, che i confini confonde, che richiede un pubblico davanti a cui sentirsi responsabile, non solo che applauda.
Il punto di vista di Anna
Laura Ambrosiano
Aspettavo l’incontro con il supervisore e, dopo un quarto d’ora di visione, stavo per spegnere per noia sopraggiunta. Era uno scambio convenzionale e francamente tedioso. Ma proprio in quei minuti, ecco, che Giovanni si anima, è in difficoltà ad esprimere sentimenti un po’ più vivi, il supervisore lo incalza e, soprattutto, sembra colpevolizzarlo. Allora comincio a pensare che la noia portava in sé l’animosità, la difficoltà di Giovanni a vivere l’intensa ambivalenza verso la supervisione, verso il suo bisogno di supervisione. Un incontro quello tra i due protagonisti che è durato otto anni, come ci dicono; quando lo sento benedico tra me e me il regolamento condiviso (da IPA e SPI, e da tutte le scuole di psicoterapia) che prescrive solo due anni di lavoro con lo stesso supervisore! Penso alle intense ambivalenze per cui la supervisione è una esperienza che si gode e che si subisce, da cui si impara, ma che allarma. La fantasia è che il supervisore cercherà di fare diventare il giovane collega come l’analista che “lui” ha in mente. Ionesco aveva descritto la lezione come un incontro tra il desiderio dell’allievo di mangiare il maestro, e quello del maestro di mangiare l’allievo. A maggior ragione ciascuno di noi, nella supervisione, vive il timore di essere irregimentato, plagiato, piegato a un modello, e specularmente, da parte del supervisore, si vive il timore di inibire la specificità e le potenzialità di originalità del collega supervisionato. Giovanni accusa Anna di qualcosa del genere, lo fa per accenni, più che con le parole con il tono di voce e con l’animosità che questo contiene, con la evidente difficoltà a parlare delle sue difficoltà cliniche. E’ difficile esprimere chiaramente queste paure, si teme di mettere a repentaglio il rapporto stesso, di ricevere taciti giudizi negativi. La noia copre ed esprime tutto questo. L’altro punto che mi ha colpito è una frase di Anna. Quando coglie l’ambivalenza di Giovanni, Anna parla del bisogno di visibilità, del bisogno che hanno quelli che fanno questo lavoro di essere visti e testimoniati da qualcuno (ecco il senso della supervisione secondo Anna). Qui c’è qualcosa di vero, secondo me. Certo il paziente ci vede, anche più di quanto immaginiamo, e ci aiuta ad aiutarlo spesso con attenzione e competenza (inconscia). Ma, Anna ha ragione, abbiamo bisogno di visibilità, come fosse un modo di mettere fuori il naso dalla stanza di analisi, abbiamo bisogno innanzitutto che ci vedano i colleghi. Avere visibilità nella società allargata ormai sembra una cosa impossibile, almeno in questa società post-moderna tutta di fatti e agiti senza gran lavoro psichico. Ma nel gruppo di colleghi, almeno in quello, sì, desideriamo essere riconosciuti, condividere un senso e la tensione di ricerca che ci anima. Ma le Società psicoanalitiche sono cresciute numericamente, a tal punto che si può passare una intera vita di lavoro senza che i colleghi memorizzino il tuo nome. Lo stratagemma, se si hanno le energie, potrebbe essere quello di forzare la propria visibilità attraverso la ricerca di potere, o di successo economico (difficile in questi tempi), o, in modo più facile, trasformando i supervisionati in propri fans, costruendosi intorno un gruppo di allievi che ti eleggono maestro e ti seguono, apprezzano le tue idee e le diffondono……..
Nonostante le critiche che In treatment può suscitare, ho l’impressione che chi lo ha ideato abbia bazzicato il nostro ambiente e ci possa pungolare.
6 aprile 2013