Pietro Roberto Goisis
Fin dalla prima visione di Be Tipul nel 2005 ebbi la sensazione che il personaggio dell’adolescente (Ayala) fosse il più riuscito. L’incontro con Sophie nella versione HBO, esaltata dalla straordinaria interpretazione di Mia Wasikowska (ora una delle migliori e apprezzate attrici emergenti), fece il resto. Su questa storia sono stati scritti articoli e libri. Io stesso la uso ampiamente nella formazione. Bando alla nostalgia. Ora abbiamo un’italica Alice. Una normale sedicenne, più a suo agio nei passaggi ironici e oppositivi che in quelli drammatici, ma sempre avvincente nello scambio relazionale. La rappresentazione e la finzione scenica sembrano confermare che il lavoro con gli adolescenti ha davvero contribuito allo sviluppo del paradigma relazionale nella pratica analitica. La ricerca di un tentativo di accedere alla cura di situazioni cliniche inesplorate.
All’inizio abbiamo l’evidente messa in scena dell’ambivalenza di Alice: non riesce ad aprire la porta dello studio, fatica a salutare e a dare la mano (avambracci e mani ingessate), ripete come un mantra “non sono qui per la terapia”, fatica ad entrare in studio, non si siede, parla in maniera confusa. La relazione é già iniziata … o meglio la negoziazione intersoggettiva sta per dispiegarsi. Giovanni é, a mio avviso, molto diverso che con gli altri pazienti. Con Alice é più “attivo”, sta in punta di poltrona, proteso verso la ragazzina, molto sorridente (un po’ seduttivo, forse, ma mi sembra un atto necessario…), accoglie le ironie e le prese in giro con indulgenza. Sembra accetti di diventare un oggetto nelle mani della paziente, le si offre come opportunità, per fare in modo che lei lo possa utilizzare. Assistiamo alla trasformazione della impertinente e confusa domanda iniziale (“sono qui perché lo vuole l’assicurazione…lo chiede mia madre…mi serve una relazione, deve solo scrivere che non mi volevo suicidare…lo faccia subito”), in una minimale alleanza terapeutica, in una parziale disponibilità ad ascoltare e a pensare. Non è ancora un progetto terapeutico, è la possibile apertura di uno spazio mentale. Quante volte anche a noi, con gli adolescenti che incontriamo per la prima volta capita di doversi confrontare con l’ostilità, la non disponibilità, il dichiarato rifiuto (“sì, sì, ci vado…tanto starò zitto tutto il tempo…o magari dormirò!”). E quanta sorpresa ed emozione ci prende quando, dopo una iniziale e faticosa negoziazione, i ragazzi accettano di parlare con noi e di rivederci.
Perché ne hanno bisogno, ovviamente. Anche se consapevolmente magari non lo sanno. Come Alice che ci mostra subito il suo funzionamento scisso, con aree di dissociazione, tipiche di una condizione post-traumatica: ride troppo e in maniera dissintona all’inizio del colloquio, non ricorda gli eventi temporali, è impulsiva, reattiva, sospettosa. Come fa Giovanni a farla rimanere? A mio avviso con alcuni movimenti relazionali: disponibilità e flessibilità, interesse per lei, rispetto per la sua libertà, autenticità e una domanda che determina un cambiamento di clima. “Ma tu … come stai?”, le chiede. “Domandona…”, risponde Alice. E anche con qualcosa che lei non sa (e forse neppure Giovanni), ma che nella puntata è ben mostrato: il contatto del terapeuta con la propria e altrui adolescenza rappresentata dalla figlia Francesca che Alice “impone” dentro la stanza. Lui ne è infastidito, cerca di ricacciarla fuori (dalla mente?), ma a mio avviso al suo interno lo guida e aiuta. E’ quella che io chiamo immedesimazione. Di conseguenza, piano, piano l’atteggiamento cambia. Alice diventa più cupa e silenziosa.
Così la morte, temuto e terribile argomento, può entrare in seduta, con l’ironia di Alice (“se non le avessi trovato l’inalatore…”), con le prime caute riflessioni di Giovanni. Ed ecco la sua proposta: “Facciamo un patto, diamoci i compiti. Ognuno di noi due scriverà la propria valutazione e la prossima volta…ho bisogno di vederti almeno 3 o 4 volte…confrontiamo le nostre idee”. Una buona mossa. Io avrei accettato. Vediamo se lo farà Alice…
4 aprile 2013