Regia di Emma Dante, 2013, I-CH, 94 min.
Stretta la Soglia, larga la Via.
Commento di Amedeo Falci
Primo lungometraggio di Emma Dante. Acclamata regista teatrale. Autrice anche, con una sua particolare poetica sul degrado, l’emarginazione e il disfacimento umano e sociale della città di Palermo. Attesa quindi per questo film, che rimanda non solo all’omonimo ‘racconto lungo’ della stessa Dante (2008), ma che assume, nella versione cinematografica, un chiaro impianto teatrale della sceneggiatura, della messa in scena, dei dialoghi e dell’ azione. Gli spazi claustrali. Le persone dentro le auto. Uno stretto vicolo. Una casa con troppe persone. Una città soffocante e soffocata dal caldo, dalla rovina, dall’autoimplosione.
È quest’ ottica teatrale che sembra reggere – meglio – la prima parte del film. Quella dove si innesca la situazione drammatica delle due auto che si fronteggiano in uno spazio senza vie d’uscita. Senza una plausibile spiegazione del perché nessuna delle due guidatrici possa retrocedere. Forse perché lì si gioca, una volta e per tutte, il riscatto di reciproci fallimenti (personali, sociali?). O perché questa è la cifra della città. Arroganza inutile dei suoi abitanti, cattivo retaggio dei vicereami, sfrontatezza del popolo, onore straccione e privilegi pretestuosi, rappresentati in un anfiteatro di miserie (economiche e urbane. Soltanto?). Una sfida senza parole – tra le donne – che i sottogruppi sociali intorno non riescono a penetrare e a cogliere, a sciogliere. Mentre il sottogruppo delle donne tenta di mediare con la diceria e il mito (la vecchia ha i piedi di capra, dicono, ed alla fine, nel ‘sogno’ della morente, si scopre che è vero!), il sottogruppo degli uomini, dopo la normale tentazione di guerra e sangue, tenta di girarla, più convenientemente, in scommessa e guadagno.
Ma è da questo momento in poi che l’impianto complessivo dell’opera sembra non tenere dietro al suo drammatico ed oscuro incipit originale. Si disperde, piuttosto, in abbozzo macchiettistico, si declina e diluisce in tanti rivoli di una convenzionale caratterizzazione popolaresca. Un esito così incredibilmente distante dalle egregie, coraggiosamente ‘sgradevoli’, operazioni teatrali sul degrado palermitano della stessa Dante: “mPalermu”, “Carnezzeria”, “Mishelle di S.Oliva”, “Le pulle”. E un esito anche non così dissimile dalla tanti luoghi comuni caricaturali di una Palermo sguaiata, plebea, relitto dell’accoppiata ‘Miseria e Nobiltà’ della capitale che un tempo fu. Ma almeno, questa ottica della caricatura la recuperava con cifra ironica l’indimenticabile musicalkitsch nordafricano-panormita-mediorientale [che non saprei quanta distribuzione abbia avuto a livello nazionale] “Tano da morire”, di Roberta Torre (1997). O, al contrario, questa estetica della ‘plebeità’ brutta, sordida, sporca, la esasperavano a livelli di sublime fascino della turpitudine, Ciprì e Maresco, nella ormai storica, ‘rivoltante’, ed oggetto di cult, serie di “Cinico TV”, e nelle altre poche produzioni del duo. O ancora, questa ricognizione della città in chiave grottesca e mortuaria (chi è morto/a: i protagonisti, Palermo?), la effettuava Daniele Ciprì nel suo interessante (e superbamente fotografato) post-TV-cinismo di “È stato il figlio” (2012).
Al centro di questo Triangolo di Palermo (non meno pericoloso di quell’altro), la Dante rimane bloccata, non sviluppa l’esordio drammatico del muro contro muro delle due donne, ibrida l’occluso mistero dell’inizio con un vignettismo di ‘sottoproletariato’ (termine certamente desueto ed archeologico) accattivante, rinuncia a quella durezza e ‘sgradevolezza’ estetica che hanno fatto parte essenziale della sua cifra espressiva. Tradendo persino il suo stesso racconto, da cui si distacca in parecchi punti, e non in senso migliorativo. Se, infatti, il testo scritto, contaminando la lingua ufficiale con crude espressioni dialettali (alla Camilleri, ma senza l’ arguzia, la simpatia e la leggerezza di Camilleri) tentava di dare conto di una altrettanto cruda realtà sociale ed umana, scorticando a sangue situazioni sociali, assetti di famiglia e personaggi, mostrando il tessuto mostruoso, anomico, anetico ed incompassionevole di una città e dei suoi abitanti, qui, nel film, non funziona così. Nelle immagini non c’è un tessuto ‘maledetto’, ma una trama indulgente, benevola, in cui si muovono personaggi persino divertenti nelle loro intemperanze, nei loro dialetti, nelle loro volgarità. Certo, siamo sospesi eternamente nei linguaggi, e non si potrebbe rendere il degrado senza una parlata che lo rappresenti e lo ricrei. Ma questo linguaggio espressivo, più strettamente e più aspramente dialettale che non si può, appare qui eccessivo, compiaciuto e compiacente. Occorre davvero la coattiva ripetizione della più nota interiezione volgare in dialetto siciliano – la parola che tutti sappiamo e sanno, e che diverte e fa ridere tutti, per la strada ed in televisione, ‘marcatore’ universale della sicilianità (come si parla usualmente a Palermo?: così…, appunto) – per rendere efficacemente lo spirito dei luoghi? Confrontare, prego, per capire la differenza, con la incompiaciuta cruda nettezza dell’uso dei dialoghi in “Gomorra” (2008), e con la secca laconicità dei dialoghi di uno dei migliori film della stagione precedente, “Salvo” di Grassadonia e Piazza, da collocare nell’antologia dei più secchi racconti sulla città. Non quindi un recupero post-moderno della ‘miserabilità’ di una (ex-) (grande?) città del meridione, ma, nella seconda parte, una galleria di tipizzazioni sulla vita dei vicoli e delle borgate. La Dante, se peccato commette, commette quello di abdicare a metà film al suo discorso sulla città ed i suoi abitanti, sulle sue ‘femmine’ e sui suoi ‘maschi’, sull’antropologia dell’ ‘onore’ irragionevole, sull’insensatezza di diritti inesigibili, che hanno fissato una città (ed un cultura) in un passato senza presente (e senza futuro) – peccato di abdicare a tutto questo, per virare ad un folklorismo di maniera.
Riscattano il film una interessante interpretazione di Elena Cotta, che ha meritato la Coppa Volpi all’ultima mostra di Venezia, una Rohrwacher sempre brava nei suoi ruoli di ‘aliena’, una Dante che fa benissimo l’antipatica, e un folto stuolo di teatranti ex-giovani-anzianelli della colta Palermo degli anni ’80, ed infine dei generosissimi personaggi ‘presi dalla strada’. Bella l’idea di questo ‘allargarsi’ progressivo del vicolo: ma per che cosa abbiamo fatto allora la guerra, se si poteva passare? Ma innalza inaspettatamente il valore del film, uno splendido finale, una bella invenzione della Dante, originale rispetto al racconto, con degno accompagnamento di una cantata dei Fratelli Mancuso.
Film indubbiamente da vedere, da commentare. Per capire. Per capire Palermo (ma la città offre molto, molto di meglio, nel peggio). Per capire i limiti e la differenza tra autore teatrale, regista teatrale, regista cinematografico. Stupisce la collaborazione di Giorgio Vasta – giovane e apprezzato scrittore – alla sceneggiatura, che (nel senso de: la quale) non ha apportato alcuna miglioria al testo letterario, ma ne ha, semmai, diluito la forza.
Tenevo per ultima la vera grande ‘genialata’ tecnica del film. Per i malati di cinema. Le due auto si bloccano e si fronteggiano senza possibilità di uscita in una via Castellana Bandiera che è appena un vicolo. Poi, man mano che il film procede la via appare sempre più larga. Le due auto sempre lì a fronteggiarsi, benché accanto a loro potrebbe passare un camion. (Capita l’ardita allegoria?). Ecco il quesito finale ai lettori (cioè agli spettatori). Come hanno fatto? Ricchi premi.
Settembre 2013