Cultura e Società

Una separazione

3/11/11

 

Asghar Faradhi, Iran, 2011, 123 min.

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commento di Rossella Valdrè


"Non si scopre la verità: la si crea"
(A. de Saint-Exupéry)

 

Il critico Paolo Merenghetti, voce autorevole de Il Corriere della Sera, di solito prudente negli elogi, ha definito questo film "un capolavoro"; consapevole di dire una parola grossa, scrive, tuttavia è quella giusta in cui collocare Una separazione, dell’iraniano Asghar Farandhi. Io credo che il critico non abbia esagerato: la complessità, la ricchezza narrativa, il gioco dei differenti piani di lettura che via via si dischiudono davanti allo spettatore, ne fanno un’opera davvero straordinaria (vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, 2011).
La storia si apre, con il titolo, enunciando un primo livello, quello del dissidio coniugale: Simin e Nader sono davanti al giudice per la separazione. Motivo scatenante il conflitto, in una intelligente e acculturata coppia del ceto medio, è un’importante scelta di vita: lei vorrebbe andare all’estero per far vivere diversamente la giovane figlia, una riflessiva adolescente che la madre vorrebbe sottrarre al complicato destino delle donne iraniane, ma lui, Nader, rifiuta di seguirla, dovendo accudire il padre malato di Alzheimer, che abita con loro e richiede continua assistenza. Mentre Simin se ne va intanto dai suoi genitori, forse anche nella speranza che il marito cambi idea, Nader si vede costretto a cercare rapidamente una persona che assista il padre mentre lui è al lavoro, e si presenta all’incarico Razieh che, con la piccola figlia di cinque anni, appare da subito una donna segnata dalle difficoltà economiche del marito, rimasto disoccupato, costretta a convivere penosamente con i conflitti morali che la religione ultraortodossa le impone: può una donna accudire nel corpo un uomo, anche se vecchio, demente ed estremamente malato? come riferire al marito, impulsivo e ugualmente ortodosso, una decisione che la religione vieterebbe, ma che l’urgenza economica, la sopravvivenza impongono?
Si apre così, si disvela, un secondo registro: il conflitto tra esigenze della vita ed etica osservante di una religione fondamentalista, tra bisogni privati, familiari, e richiami dottrinali che se possono far sorridere un occidentale, sono nell’animo di Razieh l’assoluto e silenzioso codice cui attenersi, giorno dopo giorno. L’urgenza di aiutare in casa le fa faticosamente sopportare il conflitto, ma il lavoro è pesante, fisicamente sfibrante, e veniamo scoprendo che la donna aspetta un bambino al quarto mese….non lo aveva rivelato al datore di lavoro, o lo aveva lasciato intendere e questi ha preferito far finta di niente? La vicenda esplode, infatti, quando un giorno Nader rientra a casa e trova il padre legato al letto, caduto a terra, e nessuno ad accudirlo; indignato, caccia via Razieth, convinto che si sia allontanata colpevolmente per farsi gli affari suoi, e abbia anche sottratto del denaro. Nell’alterco, forse la spinge dalla porta di casa per farla uscire, visto che la donna resiste…ma forse no, forse è solo lei che, impacciata dalla fatica e dal corpo gravido, scivola per le scale e sarà ricoverata. Si disvela così un’altra verità: Razieth perde il bambino e ne incolpa Nader, che avrebbe "ucciso il mio bambino" con quella spinta, ma Nader nega di sapere che fosse incinta, lei non lo aveva detto nel timore di non essere presa, e sotto il chador è impossibile distinguere una gravidanza al quarto mese. Il marito viene così a scoprire in ospedale che la moglie lavorava di nascosto, si sente ingannato da lei e furioso con Nader, che ritiene responsabile del disastro….
Altre domande sorgono, incalzanti interrogativi: perchè condanna la moglie, che era lì per aiutarlo? Viene prima il ribadire la superiorità del marito rispetto alla donna, l’amor proprio ferito è più forte della ragionevole comprensione? Nessuno ha pena, empatia al dramma di una donna prigioniera di un dilemma che pare oggi antistorico, costretta in un abito che la occulta alla visione del mondo, solo gli occhi angosciati e tristi liberi di esplorare lo spazio? Altro registro, altra pagina: le donne, gli uomini, la condizione femminile, il rapporto tra i sessi. Stridente mistura di modernità e arcaismo, secolarità e religione, strade piene di auto dove nessun volto femminile è privo di velo (le donne colte, le insegnanti, la stessa Simin), o l’intero corpo nascosto nell’integrale chador (Razieth, le donne povere, le ortodosse). Come nei profili raccolti e schivi delle nostre suore di una volta, il lungo velo nero delle donne del popolo fende l’aria, scivola giù silente per le scale dei palazzi, piccole frettolose figure tutte simili, tutte apparentemente anonime, quasi senza identità.
Dentro una storia apparentemente semplice, tutta raccolta in pochi personaggi, in pochi ambienti (le case, l’ospedale, la questura), si dipana una progressiva complessità narrativa veramente mirabile; disvelamento su disvelamento, veniamo scoprendo, insieme ai personaggi, pezzi, squarci di verità. Conflitto coniugale e miserie sociali (il lavoro si perde, la fabbrica chiude), spinte emancipatorie (Simin e il suo desiderio di espatriare) e irrinunciabile legame di cura ai propri anziani, laicità e regole del Corano, menzogna e verità. Menzogna e verità, questo il cuore del film, il fil rouge, la domanda che percorre tutta la scrittura del racconto. E’ menzogna quella di Razieh, verso il marito e verso Nader, di non dirsi incinta? E’ menzogna quella di Nader, che aveva saputo della gravidanza, in realtà, ma sceglie di non farne parola? E’ verità quella che stabilisce il giudice, annoiato e frettoloso esecutore della giustizia umana, in uffici carichi di carta e di gente che si ammassa aspettando il suo turno? Cosa è etico, infine, seguire il dogma che una religione indiscutibile ha imposto, o adattarlo alle ombre, alle mille necessità del vivere?
"La morale è sempre ambigua", scrive Claudio Magris, non può che oscillare in un continuo "mescolarsi tra l’autentico e l’ambiguo", tra quelle che chiama dimensioni "diurne" e "notturne" dei territori dell’etica. Zone grigie, dunque, quelle in cui necessariamente ci muoviamo. Nel suo recente "Contro l’etica della verità", Gustavo Zagrebelsky coltiva un’intensa riflessione sui rischi dogmatici dell’assumere ciecamente, senza mediazione, senza conflitto, quella che chiama etica della verità; "dirsi contro l’etica della verità – scrive – significa a favore di un’etica del dubbio….l’etica del dubbio non è contro la verità, ma contro la verità dogmatica…". Pur riferendosi alla Chiesa cattolica, possiamo a maggior ragione estendere il discorso ad altre religioni, ben più dogmatiche e severe: esse hanno séguito, attecchiscono laddove sui terreni poveri dell’ignoranza e della tradizione, propongono un rigido codice di regole e valori che non consente incertezze, contro la fragilità della democrazia, dello Stato secolare, laico, che proprio in quanto ammette al suo interno la critica, si espone così alla fragilità.
Ma Una separazione, come detto prima, non si esaurisce qui: è spaccato familiare e insieme scava nell’intimo dei personaggi, è racconto sociale dove la narrazione non perde mai di vista, non può perdere di vista, l’intreccio col tessuto religioso e politico, ma senza che nessun piano sopravanzi o ne occulti un altro. Tutto si svela via via, tutto appare: l’etica del dubbio, del notturno, di quella che Zizek chiama la verità nella menzogna e che faceva dire a Nietzche che le convinzioni possono essere nemiche peggiori della menzogna, emerge come il tema di fondo della nostra storia, sì, ma di tutto l’agire umano. I tasselli trovano i loro possibili incastri, ma mai definitori, mai esaustivi, e la stessa fine è lasciata sospesa: tornando al tribunale iniziale, con chi sceglierà di vivere la figlia? Quale sarà la sua verità, quale la libertà della sua scelta?
Al dogmatismo su cui mette il dito Zagrebesky, non si oppone il relativismo etico nel film: non è che una cosa valga l’altra, che si menta per scappatoia o per evitamento. Ogni personaggio soffre e vive intensamente uno specifico conflitto ed è portatore di una verità personale, sua propria, dove nessuno evita nulla, nessuna fuga in facili soluzioni, ma piuttosto un latente, a me pare, un sommesso incoraggiamento a tollerare il dubbio, a viverci gomito a gomito assumendosene tutto il carico, contro le facili e sicure vie del dogma.
Non è che esistano mille verità possibili e perciò nessuna verità. Il bisogno umano di cercare la verità – giuridica, religiosa, affettiva – domina tutto il film, ma non è una Verità data, con la V maiuscola, è quella verità che fece dire a un profondo mistico come Gandhi che
"dato che non la penseremo mai allo stesso modo e vedremo la verità per frammenti e diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta è la tolleranza reciproca. La coscienza non è la stessa per tutti" (corsivo mio).


24 ottobre 2011

 

 

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