regia di Alina Marazzi, I-CH, 2013
Conversazione tra Pietro Roberto Goisis ed Elisabetta Marchiori
(a margine del film e dell’intervista alla regista pubblicata su spiweb.it)
“Alla nascita d’un bimbo
il mondo non è mai pronto”
(Un racconto iniziato, di W. Szymorska)
Appena é uscito l’ultimo film di Alina Marazzi sull’esperienza ambivalente della maternità, una di noi (Elisabetta Marchiori, con Daniela Lagrasta) ha scritto una recensione per il sito mentre l’altro (Pietro Roberto Goisis, con Gabriella Giustino) ha contattato la regista e l’ha intervistata.
Ricordiamo la semplice trama del film: Pauline (Charlotte Rampling) è una donna anziana che torna, dopo esserne stata a lungo lontana, a Torino nella sua casa d’infanzia, per intraprendere una ricerca personale presso un “centro di assistenza per la maternità”, dove guarda video-interviste di madri, legge trascrizioni delle loro storie, osserva gruppi di esercizi preparatori al parto e di riflessione fra neo-mamme. Si intuisce che è stata testimone di un dramma terribile. A colpirla particolarmente è Emma (Elena Radonich), una ballerina di danza contemporanea, con il suo bimbo nato da poco, sentito come un estraneo, come un ladro che è venuto a rubarle la vita ed il futuro. Dall’incontro di muti sguardi tra le due donne e di intensi e profondi rispecchiamenti si dipana la trama della fiction, che rimane sullo sfondo, e in questa sono incastonati gli altri materiali. Video-interviste, fotografie, filmati in Super 8, animazioni in stop-motion, sequenze di repertorio.
Conoscendo entrambi Alina Marazzi e il suo cinema, questo film ‘che scava dentro’ ci ha portati a confrontarci e discutere.
Ci é sembrato interessante condividere il dialogo che è emerso, seguendo come tracce sia il film sia l’intervista, il quale ha fatto emergere, in modo abbastanza netto, le differenze di un punto di vista femminile e a uno maschile.
Pietro Roberto Goisis: Faccio un po’ fatica a scegliere da che parte cominciare, sono tante le inquadrature e le scene mi hanno colpito, hanno mosso diverse sensazioni, in vari momenti mi sono emozionato …
Elisabetta Marchiori: Sì, è un film molto toccante, a tratti mi ha commossa. Però hai ragione, non è un film facile, credo si faccia fatica a parlarne perché i temi che Alina visualizza e verbalizza sono complessi e delicati. Sembra incredibile, ma davvero non è superato il tabù dell’esprimere i sentimenti conflittuali e ambivalenti che una madre può provare verso il proprio figlio, esperiti con intensità e sfumature molto diverse. Come dice la regista, persiste un atteggiamento di omertà anche tra donne, prevale la tendenza a prendere le distanze, a non riconoscersi, a rifiutare l’idea di non essere una madre ‘perfetta’. La regista parla di “oscillazione”, di mescolanza di sentimenti tra l’amore e il rifiuto: l’anno scorso si è tenuto un convegno (Azienda ULSS 15 Alta Padovana, curato dall’Equipe Progetto “Mamme senza depressione”) proprio dal titolo ‘L’altalena emotiva della maternità’, che ha approfondito questi temi con grande competenza.
Per questo penso sia un film necessario: è ancora troppa la sofferenza delle donne, sono ancora troppi gli infanticidi commessi. Eppure sappiamo che sono situazioni che si potrebbero prevenire, disagi psichici che potrebbero essere curati: bisognerebbe però riconoscerli, monitorarli e trattarli efficacemente e per questo è necessaria una rete di servizi integrati in Italia molto carente.
“Per fortuna parlano di te”, intitola una recensione del film di Cristina Battocletti comparsa sul Sole 24 Ore (28 aprile 2013). È quello che ho pensato anch’io uscita dalla sala. Ci voleva! Per ricominciare a parlarne seriamente, a capire, ad informare.
PRG: E a pensare, aggiungerei … in questo il film colpisce certamente il segno. Ho apprezzato la cura minuziosa dei dettagli e dei particolari, la musica, la bravura delle attrici. Mi ha colpito l’uso di differenti linguaggi visivi, in diversi momenti ho avuto la sensazione di avere a che fare con una carrellata di quadri, di scene teatrali, la metafora visiva più efficace che mi è venuta in mente è quella di bellissime pennellate di colori.
EM: Io ho avuto la netta percezione di sequenze posizionate su diversi livelli di profondità, ed è questo gioco su piani differenti che secondo me permette al film di ‘scavare dentro’ in modo efficace, generando emozioni forti senza mostrare sangue, senza urlare, senza mai cadere nella retorica. Per questo ho pensato a un bassorilievo, ma anche a un quadro materico, un’opera d’arte contemporanea che riesce ad assemblare ed integrare materiali differenti con diverse prospettive: Nell’intervista la regista dice che ha sentito ‘limitante’ il solo linguaggio della fiction nel trattare questo tema e ci spiega proprio che ha avuto bisogno di usare questo mix di linguaggi per potersi avvicinare alla ‘vita vera’, quindi alla complessità affettiva di questo momento della vita di una donna.
PRG: Io ho pensato che il bianco e nero è molto efficace per rappresentare il passato, la memoria, il pensiero. Che sono fattori importanti per cogliere il problema di cosa accade nei passaggi generazionali quando è inconsciamente ereditata una lacuna nella funzione materna. A me pareva di aver ritrovato anche le riprese del nonno della regista, usate in ‘Un’ora sola’, invece si tratta di altro materiale, sempre dal repertorio di famiglia. E’ incredibile come l’immaginario cinematografico collettivo amatoriale, me l’ha detto Alina stessa, abbia inevitabilmente risonanze e somiglianze.
EM: Credo che la cosa importante sia che renda l’idea della necessità di capire la storia di una madre e quella del rapporto con la propria madre. Come afferma la regista, quando accadono eventi drammatici, estremi, come il figlicidio, si tende ancora, purtroppo, ad additare il mostro senza farsi domande su come ciò sia potuto accadere. Non è ancora dato per scontato il fatto, provato dalla ricerca e dalla clinica, che ci sono segnali riconoscibili, troppo spesso ignorati. Pauline è stata testimone dell’infanticidio del fratello e ‘torna’ per cercare di capire cosa abbia indotto la madre a questo gesto terribile, che lascia senza parole.
PRG: Questo mi pare sia reso molto bene dalle testimonianze delle video-interviste, efficaci al limite del dubbio recitativo, tutte a fortissimo impatto emotivo, con quell’incredibile passaggio dalla lucidità al pianto al quale assistiamo quasi sgomenti, ma che così ben rappresenta l’evento “baby blues”. In effetti il video nominato nell’intervista, quello della giovane madre a cui la sua stessa madre, all’annuncio da parte della figlia della gravidanza, chiede ‘non potevi aspettare?’ coglie proprio la difficoltà del passaggio dal ruolo di figlia a quello di madre.
EM: Se le immagini in bianco e nero rimandano alla memoria, come dicevi, le video-interviste avrebbero una funzione di ‘testimonianza’ di fatti di vita vissuti, dovrebbero documentare ‘la realtà’. Tuttavia, come noti giustamente, si percepisce quanto ‘la verità’ sia difficile da rendere proprio per l’intensità emotiva che la caratterizza. Così difficile che questo ‘doppio passaggio’, il ‘filmare il filmato’, potrebbe fungere da filtro per ammorbidire l’impatto della forza del trauma e del dramma. Mi pare che questo sia evidente nel caso della madre infanticida (unica intervista tratta da un documento televisivo).
La “trama” del film mi pare richiami anche il mito di Medea. Jones de Luca, una nostra collega psicoanalista, ha scritto un lavoro sull’impossibilità di pensare i sentimenti di intolleranza verso i figli, e su come il mito possa aiutarci a esplorare l’ignoto e a gestire attraverso una storia una situazione emotiva altrimenti ingestibile: “la funzione principale del mito è essenzialmente quella di fornire una forma discorsiva e narrativa per una verità che non può essere detta e trasmessa attraverso una definizione diretta”.
Forse questa è anche la funzione di questo film, dove si propongono spesso immagini di immagini, dove le parole arrivano da un registratore o dall’esterno, non direttamente dalle protagoniste.
PRG: A proposito del registratore, l’idea del vecchio ‘Geloso’ a bobine mi è piaciuta moltissimo, così come l’idea dei colloqui registrati tra paziente e terapeuta e poi riascoltati. Invece ero rimasto spiazzato dai loro contenuti, che mi erano apparsi di maniera, stereotipati, scontati, poco articolati, la voce del terapeuta suona così fredda, distaccata, le domande sono rituali, c’è poca partecipazione emotiva. Mi sono domandato se ci fosse stato un consulente per la scrittura di questi colloqui. Poi ho chiesto ad Alina, che mi risposto: “it’s all true”. Gaffe a parte, mi sono sentito gelare: il testo dei dialoghi è la trascrizione letterale di colloqui tra una donna infanticida e il suo terapeuta! E’ proprio vero che la realtà spesso è ancora più incredibile della finzione. Questo fa riflettere sull’adeguatezza, in questi casi, delle nostre capacità di ascolto empatico e di comprensione verso questo tipo di pazienti.
EM: In genere, ma soprattutto nei casi estremi, come ha ben compreso la Marazzi stessa, si tratta di una sofferenza estremamente difficile da esprimere con le parole. Infatti la regista usa l’animazione per fare esprimere a Pauline sogni e pensieri. Dice di essersi ispirata alla ‘terapia con la sabbia’, elaborata dalla psicoanalisi junghiana, basata sul concetto che attraverso la manipolazione della sabbia, quindi con la creazione di personaggi e storie, possano emergere contenuti inconsci che poi possono essere elaborati. Inizialmente usata con i bambini, è poi stata estesa anche ad adulti con particolare difficoltà alla verbalizzazione. Si tratta ovviamente di una tecnica specifica che fa parte della psicoterapia del gioco, e della terapia ‘come gioco’ del “Signor Winnicott”, come lo chiama simpaticamente la regista. Pauline prova a mettere in scena la sua famiglia “idealizzata”, quella che avrebbe voluto avere, in un tentativo di riparazione. E’ quella “famiglia felice”, troppo felice, che non accetta la sofferenza, che non la può pensare, verbalizzare e quindi comprendere. Però quei pupazzi che si animano sono anche inquietanti, hanno qualcosa di perturbante, familiare, ma, nello stesso tempo, estraniante. Le finestre che vengono chiuse rimandano a qualcosa che non si può vedere, a un segreto che rimane chiuso tra le mura della casa. Però Pauline comincia a giocare e, contemporaneamente, a leggere, guardare, ascoltare. Si apre il percorso verso la possibilità di “ricordare, ripetere, rielaborare”.
PRG: Io ho avuto anche la sensazione che rimanesse ancora una difficoltà da superare, da parte di Alina, certe tematiche e modalità narrative già presenti in ‘Un’ora sola’, un film che ho molto amato, così come le riprese da fuori casa, i paesaggi infiniti e indefiniti, mi hanno ricordato ‘Per sempre’. Come se ci fosse qualcosa di irrisolto, ma è anche possibile che questo sia un mio desiderio, magari una mia deformazione professionale, di uno che ha bisogno sempre di capire cosa succede e perché. Mi son chiesto, ad esempio, come avviene l’evoluzione di Emma, che senso ha il suo incontro con Pauline, come avviene la guarigione. Basta andarsene, attraversare un lago, remare? La storia funziona molto per processi associativi, che quindi possono essere seguiti in modo diverso dai diversi spettatori. In effetti, come dice lei stessa, è un film ‘anomalo’, non ci sono concatenazioni di causa-effetto, e questo può ‘infastidire’. Io sono rimasto perplesso.
Forse, mi sono poi chiesto in seguito e a lungo, stimolato anche da un confronto franco e diretto con la regista, sono invece io che fatico a separarmi dalla Alina di “Un’ora sola ti vorrei”. In effetti ho così tanto amato, accompagnato e presentato quel film in differenti contesti, che la storia che sta dietro e dentro la sua creazione è diventata quasi una specie di pietra di paragone, una sorta di “metro campione”. E spesso mi sono chiesto se ormai io vado a vedere un film o “il” film della Marazzi, quando esce!
Per fortuna per me, e purtroppo per Alina, come dice lei stessa paragonando la sua situazione a quella di Lidia Ravera, non sono l’unico affetto da questa specie di peccato originale. Ci sono molti critici cinematografici che commettono la stessa leggerezza e che proiettano poi sulla regista le proprie aspettative e problematiche.
EM: La sensazione di perplessità credo possa nascere dalla percezione che ci sia come una macchia cieca, un ‘buco di pensiero’ riguardo a cosa succeda in Emma, come mai può iniziare a volgere verso il figlio uno sguardo che finalmente lo vede? Questo passaggio cruciale è difficile da rendere con le parole e con le immagini: Alina corre questo rischio e lo fa intuendo che si tratta di ‘dinamiche viscerali primordiali’, le quali vanno al di là di qualsiasi questione culturale e sociale. E’ qualcosa che ha che fare con l’impensabile, con eros e thanatos, con corpi che comunicano in una ‘danza’ fatta di avvicinamenti e respingimenti, con sguardi che possono rispecchiare o non incontrarsi mai.
Avere chiaro questo è determinante. Cristina Faccincani, nel lavoro presentato al convegno che ho citato, rifacendosi ad autori quali Bion, Winnicott, Searles, sottolinea che nell’inconscio materno il fantasma del ‘dare vita’ si rovescia in quello di ‘dare morte’. Questi fantasmi di figlicidio/matricidio sono contenuti normalmente e inevitabilmente nella prima relazione madre/bambino, basata sulla dipendenza fisica e sulla simbiosi psichica, dove i sentimenti di separazione non hanno ancora acquisito forma simbolica e dove la separazione equivale all’uccisione. Questi sentimenti omicidi inconsci non sono solo distruttivi, ma innescano l’accesso alla dimensione separata subendo una metamorfosi simbolica, nella formazione di quell’area transizionale, quello spazio che consente la separazione nella continuità. Certo non basta “remare”, ma secondo me quell’attraversamento simboleggia proprio questa evoluzione, questo passaggio tutto materno: non è facile da rendere, si può evocare, intuire, con immagini metaforiche, come quelle del lago e della barca.
PRG: Dato che ormai mi sono esposto con le mie limitatezze, posso esprimere un altro punto critico? Sono stato colpito anche dalla ‘mancanza’ della presenza maschile; mi son chiesto chi fosse il padre, se ci fosse stata una crisi di coppia, che tipo di rapporto fosse quello di Emma con il capo compagnia. Quando ho sentito Alina raccontare che la sceneggiatura è stata scritta da lei e da Dario Zonta, il suo compagno, a casa, con il loro figlio piccolo, e spiegare la ‘nascita’ del film, mi è stato chiaro che anche lì, come nella procreazione, una coppia si è messa al lavoro. Come in un’analisi! In effetti un padre vive la nascita del proprio figlio in modo totalmente diverso dalla madre. La vicenda del pittore raccontata da Alina lo fa capire chiaramente. Lì mi pare ci sia proprio una sorta di invidia per la capacità della donna di ‘creare’ un figlio e lui vuole in qualche modo ‘ricreare’ con la sua arte il figlio che non ha potuto partorire. Dal rapporto iniziale tra madre e figlio, il padre inevitabilmente è in qualche modo estromesso, o si fa da parte.
Quindi ho compreso bene l’importanza della necessità del sostegno, del gruppo, della condivisione femminile. Questo mi ha lasciato una sensazione di vitalità. Sensazione per me indispensabile, così come i ripensamenti del giorno dopo, per considerarlo, come lo considero, un film bello e utile.
EM: In questo film sono le donne e le loro vicissitudini interne a fare da protagoniste. Anche per il padre l’esperienza è nuova e la regista sottolinea giustamente la difficoltà dell’uomo ad identificarsi con la figura paterna. Per la mia esperienza clinica, le donne con depressione post-partum hanno una storia di abbandoni e assenze importanti, soprattutto nella relazione con la propria madre, oppure non hanno una figura paterna adeguatamente interiorizzata che permetta loro di riconoscere il valore della relazione con il partner.
Credo sia un film che tocca corde molto diverse a seconda che lo spettatore sia uomo o donna.
Tu ti sei sentito escluso, forse. Io mi sono sentita coinvolta e a tratti un po’ sopraffatta da sentimenti familiari difficili da tollerare. Un miscuglio di sensazioni “vitali”, come dici tu, ma anche mortifere.
Credo che le prime prendano il sopravvento, come in “Un’ora sola”, perchè è molto vivo il desiderio, è viva la speranza, gli sguardi si cercano e finalmente si incontrano. “Tutto parla di te” parla alla madre come al figlio, parla ad una e di una sofferenza che può riguardare tutti, parla a ciò che è perduto e che può essere ritrovato, quando insieme possono ricongiungersi “pezzi” del passato e del presente, per consentire un futuro.
Alina Marazzi ha affinato una acutissima sensibilità nel narrare con immagini e parole le sfaccettature dell’universo femminile, con intensità diverse. “Un’ora sola”, che ricostruisce la figura della madre morta suicida, “Per sempre”, dove racconta la vita delle suore di clausura, “Vogliamo anche le rose”, uno sguardo sulle ripercussioni, anche contraddittorie, delle conquiste femministe negli anni sessanta e settanta. Mi sembra un percorso evolutivo molto significativo, dove Alina si espone sempre in prima persona e nello stesso tempo, come in una tragedia greca, invoca il “coro” e la sua storia diventa la storia di ognuno di noi. Questa volta ci invita anche a partecipare attivamente, tramite l’estensione in rete del film “www.tuttoparladivoi.com” (sito, facebook, twitter), che ha anche il Patrocinio dell’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (O.N.Da).
PRG: Credo che questa sia un’iniziativa davvero importante. E’ una regista che affonda le sue opere profondamente dentro di sé e sempre con maggiore impegno lavora per coinvolgerci. Mi sembra proprio un percorso “dall’impensabile al pensabile”. E’ pane per i denti degli psicoanalisti, come mi ha detto Alina stessa, ma l’importante è che sia pane che tutti, come spettatori e persone, possiamo, anzi dobbiamo addentare! Con questo film ce lo porge, sapendo che è duro da accettare e digerire, attraverso immagini, parole, sguardi, musiche, per dare voce e pensiero, possibilità di riflessione di confronto. Quindi credo che siamo d’accordo che possiamo seguirla fiduciosi e grati nei sentieri che apre e per i quali ci accompagna … e per i dibattiti che ci permette di stimolare quando presentiamo un suo film o ne parliamo.
Luglio 2013