Autore: Amedeo Falci
Titolo: “Tre piani”
Dati sul film: regia di Nanni Moretti, Italia, 2021, 117’
Genere: drammatico
La dissolvenza di Moretti
Dall’interessante libro di Eshkol Nevo dallo stesso titolo (ed. Neri Pozza, 2017), N.M. ricava una sceneggiatura che ne squaderna tuttavia la costruzione e l’intreccio in un rimescolamento delle tre storie che vengono trasferite dal vivace Israele in una anonima Roma della borghesia benestante e colta. Del romanzo però vengono sacrificati non pochi elementi essenziali. Ne scompare la netta separazione delle tre storie di cui solo lentamente si andavano cogliendo le connessioni. Ne scompare il carattere spesso epistolare, che conferisce un particolare tono intimo e avvolgente a tutta l’opera. Se ne perde soprattutto quel clima da letteratura ebraica nella sottile impregnazione ironica del testo, nei background storici dei personaggi, nei loro discorsi politici, nel loro muoversi tra i condomini di Tel Aviv e il deserto. Ne risulta un film di piccoli drammi familiari che stentano ad intrecciarsi in un ritmo e in un incastro narrativo convincenti, e senza la capacità di una messa in scena corale.
Si aggiungono quei difetti tipici del cinema morettiano. La poca rilevanza della fotografia e dell’immagine, una debolezza costruttiva delle scene – vedasi per tutte la sciatta sequenza della seduzione, in cui gli attori sono lasciati a se stessi -, la mancanza di ellissi narrative che sottraendo sapientemente qualcosa arricchiscano di senso il testo, lo scarso ricorso all’uso del montaggio.
Ne risulta un’opera lineare e piatta, senza sorprese, invenzioni narrative e strategie di intensificazioni del racconto, per cui anche quei passaggi che vorrebbero essere più carichi di pathos risultano infine privi di forza espressiva e di credibilità emozionale. Un film certamente pieno di spunti altamente drammatici sulle solitudini, sui fraintendimenti, sugli odi e sulle riconciliazioni, ma senza che si avverta una autentica intenzionalità creativa dell’autore. A conferma di questo attenuarsi dell’originalità e del forte potenziale critico che aveva animato storicamente tutto il cinema morettiano, questo film mostra semmai il sottile scivolamento verso forme espressive da sceneggiato televisivo. Ne sono eloquente testimonianza alcune scelte che avrebbero ripugnato al giovane Michelle Apicella dei primi film, il quale -ricorderete- sbeffeggiava con (qualche giusto) sarcasmo il buon cinema di famiglia dei Sordi, dei Manfredi & Co. Del resto, che cosa altrimenti pensare dell’incredibile (nel senso letterale: non credibile) scena di Scamarcio/Lucio che erompe in pianto dirotto dinnanzi alle finestre della scuola della figlia, o del trionfale cosmico kitsch (questa caro Nanni devi dire che te l’hanno imposta, che non è tua) della carovana del tango per le vie di Roma? Per segnalare, per chi non l’avesse capito, che i personaggi soffrono tantissimo, ma che, dopo un lungo tragitto attraverso il buio, riemergeranno alla vita (danzando)! Parabola di un autore, che è stato carissimo a più di una generazione di suoi fanatici ammiratori, ma che da tempo ormai appare sempre più in evidenti difficoltà ispirative ed espressive, e che, con questo Tre piani, raggiunge il suo apice di spaesamento filmico.
Anche in quest’opera Moretti si ritaglia una piccola ma sostanziale parte. Ci tiene a mostrare che fa, anzi che è, il vecchio giudice! Niente più spiritosi lazzi sulla nutella o gigionismi isterodi. Qui si annuncia, per l’appunto, la dissolvenza del caro simpatico alter-ego morettiano, Michele Apicella, che ha attraversato la sua filmografia — ora studente autarchico e ossessivo, ora figlio mammone, ora pallanuotista, ora professore rigido e moralista, ora prete — per lasciare posto al mesto, austero, rigido ed infelice giudice del film. Il giudicante e moraleggiante Moretti di sempre. La messa/festa è finita, e da vecchi siamo depressivamente di fronte al Superio superbo che si presenta senza maschere.
Se Moretti è il Giudice, se Scamarcio fa il solito giovanotto passionale, se la Buy fa sempre la solita saggia & buona, è la perfetta Elena Lietti, nel personaggio della compostissima Sara, la vera sorpresa di tutto il cast. Ma è la Rohrwacher che sostiene il peso della storia meglio raccontata di tutto il film, quella di una infelicità coniugale e materna senza desideri e senza fondo, la cui unica soluzione è nella fuga dissociativa. Unico e solo punto il cui il film di Moretti mostra un guizzo creativo e riesce ad introdurre un valore estetico aggiuntivo che non sarebbe davvero stato fuori posto nel libro di Nevo.
Settembre 2021