Cultura e Società

“The Substance” di C. Fargeat. Recensione di A. Buonanno

13/11/24
"The Substance" di C. Fargeat. Recensione di A. Buonanno


Parole chiave: caducità, bellezza, perfezione, lutto.

Autore: Antonio Buonanno.

Titolo del film: “The Substance”.

Dati sul film: regia di Coralie Fargeat, Regno Unito, 2024, 140’.

Genere: fantascienza, thriller, orrore.

Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo dunque è il lutto. (S. Freud, 1915)

L’esperienza intensa della visione di “The Substance” mi ha fatto pensare a Caducità (Freud, 1915). Freud racconta che le riflessioni esposte in questo scritto gli erano state suscitate da una passeggiata estiva, con la natura in piena fioritura, fatta “in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età” (ibidem, 173).

Sembra, con qualche incertezza, che l’avvenimento risalga al 1913 e che gli altri compagni potessero essere Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé, i quali, contemplando la magnificenza della natura ne prefiguravano, con tristezza, il già prossimo disfacimento, anche in un drammatico presagio di ciò che a breve sarebbe successo all’Europa e a Il mondo di ieri (Zweig, 1944), non riuscendo così a godere di tale bellezza. Se davvero dietro “l’amico silenzioso” si celava Lou Salomé, che oltre ad una vena poetica quasi pari a quella dell’amato Rilke aveva ricevuto in dono anche il bene effimero della bellezza, forse la sua malinconia, avendo allora ella superato i cinquant’anni, come Elisabeth Sparkle, la protagonista del film, riguardava anche la sfioritura del suo fascino e non solo l’alternanza delle stagioni.

È infatti questo uno dei temi di questa originale opera della regista francese Coralie Fargeat, che ci mostra il dramma di una star di Hollywood in declino, interpretata, con una scelta azzeccata e maliziosa, dal sex-symbol degli anni ‘90 Demi Moore, licenziata, nel giorno del suo compleanno, dalla trasmissione di fitness che conduceva su un canale televisivo dal produttore Harvey (come il Weinstein del me too). “Il pubblico ha bisogno di carne fresca”, le sputa addosso il repellente Harvey durante un pranzo in cui ingurgita voracemente cibo, in una plastica esibizione di Manspreading. Elisabeth, alla sua età, “non è più…non è più…è finita!”, le dice senza spiegarsi meglio, ma esprimendo inesorabilmente la continua ricerca di “qualcosa di nuovo” ma che sia sempre “più perfetto” ed eccitante.

L’incapacità di accettare l’affievolirsi della scintilla della sua bellezza e le conseguenze di questo, porta Elisabeth a cercare un modo per diventare “la versione migliore di sé”, “attivando il suo Dna”, nel progetto “The Substance”, che allude alla dipendenza che lo sguardo degli altri può produrre nell’oggetto del desiderio, in un tentativo di invertire la freccia del tempo e tornare alla perduta giovinezza. La sostanza, che ci si procura e si assume come una droga, in realtà porta ad uno sdoppiamento, con la creazione per partenogenesi di una copia più bella di sé. Per Elizabeth questa è la fresca e provocante Sue, che vive quando “la matrice” va come in letargo, in un’alternanza ideale di una settimana di vita a testa. Un equilibrio simbiotico perfetto, che non deve essere rotto e che discende dal fatto che “si è uno”, come recitano le istruzioni dell’esperimento, e non si può scappare da se stessi. Se è difficile accettare lo sfacelo del tempo, se si è introiettato quello sguardo maschile che scruta ogni centimetro di pelle alla ricerca di eventuali difetti, che allontanano dall’ideale di perfezione che nel film sembra sostituire la relazione (la protagonista è tragicamente sola), ancor più difficile è rinunciare, anche solo per un giorno, al godimento del trionfo che la bellezza e l’amore che suscita ci tributano, in un tentativo di separazione destinato a fallire.

Il dramma finale è prevedibile, ma si sviluppa in modo originale, con spargimenti di sangue e budella, fino ad un epilogo orrendo e grottesco, che si conclude dove la vicenda aveva preso le mosse, sulla stella della Walk of Fame dedicata ad Elisabeth, che se anche porta i segni del tempo, continua a ricordare un momento trascorso di intensa luce, quasi dando ragione al vecchio Sigmund, che scriveva: “Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio” (Freud, 1915, 174).

Opera di grande eleganza formale a dispetto della profusione di fluidi, degli sventramenti e dell’esposizione di corpi deformi, gioca con lo spettatore in rimandi ed echi che vanno da  Oscar Wilde a “Viale del Tramonto” (Billy Wilder, 1950) ed “Eva contro Eva” (Joseph L. Mankiewicz, 1950), fino alle citazioni esplicite di Kubrick, Lynch, Hitchcock, Carpenter, Cronenberg e chissà chi altri ancora, sorprendendo e disturbando, anche nei suoni, per qualcuno fino alla nausea. La definizione di Body Horror è corretta ma riduttiva, rimandando, come spesso accade al genere, al tema della morte e del lutto, in una parabola in cui non c’è salvezza per chi non accetta il limite, ossessionato dalla perfezione dei corpi che, come in un contrappasso, infine mutano in modo osceno e degenere, conservando come unico tratto umano il volto, in una favola nera e splatter senza lieto fine.

Bibliografia

Freud S. (1915). Caducità. O.S.F. 8. Zweig S. (1944). Il mondo di ieri: ricordi di un europeo. Milano, Monda

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