Cultura e Società

“The Brutalist” di B. Corbet. Recensione di A.a Meneghini

21/02/25
"The Brutalist" di B. Corbet. Recensione di A.a Meneghini


Parole chiave: trauma, riparazione, creatività

Autore: Alessandra Meneghini

Titolo del film: The Brutalist

Dati sul film: regista Brady Corbet; 2024; 215 minuti; Gran Bretagna;

Genere: drammatico

Vincitore del Leone d’Argento come migliore regia all’ottantunesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, di tre Golden Globe e forte di dieci candidature al premio Oscar, la pellicola dello statunitense Brady Corbet si staglia nella sua maestosità sul panorama cinematografico attuale, grazie anche alla bravura dei due attori protagonisti.

Diviso in tre tempi: L’enigma dell’arrivo, Il nocciolo duro della bellezza e L’epilogo, il film narra la vicenda di Làzlò Toth, un geniale architetto ungherese di religione ebraica allievo del Bauhaus di Dessau, che, reduce dal campo di Buchenwald, fugge dall’Ungheria approdando prima a New York e poi, a Philadelphia, ospite di un cugino. É grazie a questi, che Toth incontra il figlio di Harrison Lee Van Buren, facoltoso uomo d’affari, che commissiona ai due cugini la risistemazione della biblioteca paterna.  

Rimasto affascinato dal talento del progettista, H. L. Van Buren lo cerca per affidargli la costruzione un imponente edificio in memoria della madre che nel frattempo è morta, dando avvio a un rapporto venato da reciproca ammirazione e, al contempo, da violenta passione. Tra loro, si inserisce Erzebét, la fragile quanto determinata moglie di Torth, scampata dal campo di Dachau e arrivata negli Stati Uniti per ricongiungersi al marito.

Il film ruota attorno al complicato e perverso rapporto tra Toth e Van Buren e alla loro creazione, frutto del talento visionario dell’ungherese e del denaro dell’americano: il grandioso edificio di calcestruzzo, materiale d’elezione dello stile architettonico cosiddetto brutalista, composto da molteplici corpi abitativi e collocato sulla sommità di un terreno di proprietà dell’uomo d’affari. Dalle colonne immerse nell’acqua alla base dell’edificio, alle vertiginose pareti dei locali ai piani superiori che sembrano innalzarsi verso il cielo, fino alla croce di luce formata dal passaggio dei raggi solari dalle studiate aperture nel tetto, l’ambizioso edificio progettato da Toth sembra situarsi tra il Castello kafkiano e il labirinto borgesiano, penetrabile ed enigmatico allo stesso tempo, feticcio cementificato di un’unione impossibile. Ognuno, infatti, dei due protagonisti incarna ciò di cui l’altro è manchevole: Toth possiede il genio creativo di cui Van Buren è privo nella sua ordinarietà, mentre il talento del primo necessita dell’appoggio economico di questi per dispiegarsi nella sua pienezza.

Da un altro vertice però, Van Buren e Toth non rappresentano che l’uno il doppio dell’altro, dove l’essere illegittimo, cioè non riconosciuto dalla legge, sembra costituire il nucleo identitario ferito di entrambi: il primo come figlio nato fuori dal matrimonio, il secondo come ebreo e quindi reietto per la delirante ideologia nazista.

È il pericolo di crollo psichico legato alla perdita della madre con cui è identificato narcisisticamente, a spingere Van Buren alla ricerca dell’architetto ungherese, per commissionargli un edificio in memoriam, trovando in questi, sopravvissuto colpevolmente alla Shoah e orfano della madre-patria, un potente riflesso interno della propria parte melanconica.

Così, la progettazione e la costruzione del maestoso edificio rappresentano per entrambi il tentativo di ripristinare magicamente nella realtà esterna l’oggetto interno danneggiato e poi perduto, denegando il contatto con il dolore depressivo e la colpa (Klein, 1935). Non a caso, Làzlò Toth è anche il nome di colui che nel maggio del 1972 colpì a martellate la Madonna della Pietà di Michelangelo).

É solamente passando attraverso una sofferta coazione a ripetere venata da una distruttività sado-masochistica, che Toth giunge al compimento della sua imponente opera d’arte. Come in un suggestivo gioco di specchi, imponente risulta anche l’opera di Corbet, la cui regia si muove scegliendo di dilatare oltremisura la dimensione spazio-temporale del film: costruito durante un decennio di lavorazione, il lungometraggio stato girato interamente in 70 mm, al posto dei tradizionali 35mm, così da aumentare il grado di definizione delle immagini. L’occhio del regista si sofferma lentamente, senza fretta, lungo le scene, muovendosi con inesorabile morbidezza dai protagonisti, per virare sui singoli dettagli dell’ambiente che li circonda, creando così nello spettatore un effetto straniante. La durata stessa della pellicola segue questo fil rouge, oltrepassando le tre ore di proiezione, compreso il curioso intervallo di 15 minuti voluto dal regista, quasi un quarto tempo, con tanto di foto d’epoca e di conto alla rovescia proiettati sullo schermo, con il particolarissimo effetto di trasformare degli spettatori estranei gli uni agli altri, in un gruppo di persone in attesa all’interno della sala cinematografica.

Forse è proprio questa una delle dense metafore di questo complicato e bellissimo film, dove nemmeno durante l’intervallo, l’assenza sembra trovare uno spazio e un tempo per divenire tale, quasi a segnalare un nocciolo duro, appunto, di non rappresentabilità psichica di quell’esperienza umana così assurdamente traumatica, qual è stata la Shoah.

BIBLIOGRAFIA

Klein M. (1935), Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, in Scritti 1921-1958, Torino: Bollati Boringhieri, 1978, 297-325.

Vedi anche:
CMP – Esperienze avverse e traumatiche: il punto di vista della psicoanalisi, 27/01/2024

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