Uberto Pasolini, 2013, GB-I, 85 min.
Commento di Giuseppe Riefolo
Still Life. Ovvero: la vita in attesa
“ed ora voglio andare al cimitero,
ho un po’ di saluti da portare…”
(Nebraska, di A. Payne, 2013)
Il film.
John May è un funzionario comunale dedicato alla ricerca dei parenti di persone morte in solitudine. Diligente e sensibile, John scrive discorsi celebrativi, seleziona la musica appropriata all’orientamento religioso del defunto, presenzia ai funerali e raccoglie le fotografie di uomini e donne che non hanno più nessuno che li pianga e ricordi. La sua vita ordinata e tranquilla, costruita intorno a un lavoro che ama e svolge con devozione, diventa più precaria a seguito del licenziamento dovuto al ridimensionamento del suo ufficio. John chiede al suo superiore di concedergli pochi giorni per chiudere una ‘pratica’ che gli sta a cuore e che riguarda Billy Stoke, un vecchio uomo alcolizzato che aveva conosciuto un passato felice e Kelly, la figlia che Billy ha lasciata molti anni prima. Di Billy, finalmente, conoscerà la vita e gli affetti fino a prendere lo stesso destino e occuparne lo stesso luogo.
Il vuoto e l’assenza
Tutta la vita e tutto il mondo di John May è popolato di fotografie, ma sono fotografie di vite passate. Le foto sono momenti fermi che, nella patina gialla e scolorita del tempo sembrano momenti morti: Still Life? Non saprei! Il film sembra voler contraddire continuamente il suo titolo perché quelle foto aspettano qualcuno che ne sappia sentire la vita che racchiudono.
Io faccio l’analista ed ho pensato che quelle vite arrivavano a John May perché lui se ne dovesse occupare, non per ricordare o celebrare funerali, ma per richiamare – proprio ora che quella persona non c’era più – tutti quelli che fino a quel momento avevano tolto quella persona dalla loro memoria. Quella persona esiste proprio ora che non c’è più! Non perché la morte è sacra e col funerale si può chiudere finalmente tutto, ma perché la tua vita cambia se ad un vuoto sostituisci un’assenza, ovvero no thing a nothing (Bion): “Le viene in mente qualcuno che l’abbia conosciuto? Che magari abbia voglia di partecipare al suo funerale… è lei non vorrebbe… no?..no!” Nessuno vuole partecipare ai funerali, perché fino a quel momento quelle persone erano morte, ma nessuno lo sapeva e niente l’aveva ancora ratificato: “con Billy mi farei sicuramente una bevuta, ma non il funerale… mi dispiace non posso!” Anche Kelly la figlia che emerge da un lettera di Billy, per quanto aspettasse il padre non può ammettere che quel padre, tante volte desiderato morto, ora sia morto per davvero: “devo darle una brutta notizia, suo padre è morto!”; “quando è successo?”; “non saprei, potrei pensare…”; “No.. non voglio sapere.. ha già detto molto!”
E’ strano il luogo in cui lavora John: “Municipio di Cristawn: servizio utenti. Questo ufficio si occupa di rintracciare i parenti di chi è morto in questo municipio”. La natura morta è nelle inquadrature del film: le stanze, gli arredamenti, le posate sul tavolo e la mela che deve essere sbucciata senza fratture della buccia. Ma anche nei paesaggi: il signore sempre fermo alla finestra che ti vede passare sempre, tranne una sola volta o il semaforo che puntualmente dice che si può attraversare, tranne una sola volta, o le cabine colorate sulla spiaggia viste da dietro e dall’alto… Nel luogo del tuo lavoro, dove centinaia di cartelle dicono di storie sospese, tutto ha un tono sacro: per questo John sembra accarezzare la giacca quando la poggia all’attaccapanni dietro la porta o quando prende in modo leggero la sedia sollevandola religiosamente per lo schienale; la stessa ritualità dei funerali in cui, col prete, è l’unico partecipante e lui ha portato la musica giusta.
Billy e Kelly.
Perché proprio Billy Stoke diventerà il caso particolare? In fondo, sono tutti casi particolari! Però Billy abitava proprio di fronte alla tua finestra e non te n’eri mai accorto se non proprio ora che non lo puoi più vedere o incontrare. Billy ha un album pieno di vita felice, soprattutto di una piccola bambina bionda di cui nessuno sa nulla. La casa di Billy è piena di bottiglie che dicono della sua sofferenza e della sua solitudine, ma ci sono i dischi anche se non c’è un giradischi! Capiamo allora che i dischi possono esistere anche senza che ci sia un giradischi: il giradischi è solo l’evoluzione di alcune “cose” che attendono un giradischi per dare la musica, altrimenti sono solo depositati in un piccolo mobile. Non è un caso che proprio lì John troverà un pacco di negativi: ancora fotografie che John pone sulla sua scrivania come scene sparse di una vita passata, ma soprattutto di una vita che può riprendere… e questa volta si tratta soprattutto della sua vita, perché la sequenza di foto sulla scrivania “…trasforma la monade temporale dell’evento in un complesso montaggio di tempi” (Didi-Hubermam, 2003, 49).
Tra Kelly e John l’incontro è segnato da una inferriata che li separa: “le porto brutte notizie”; “Così da oggi sono orfana?!”. Ma, fra le loro fredde comunicazioni, attraverso le sbarre che li separano, John farà scivolare un album con tutte le foto che parlano di Kelly e di Billy, suo padre, che in quel momento della fotografia la stava guardando commosso e l’amava: “mi ha telefonato dopo 10 anni il giorno del mio 18 compleanno. Lui non ricordava il mio compleanno e non ne ha parlato. Pensa che lui sapesse?”. Ovvio che sapesse, ma, come per le foto, alcuni momenti accadono senza parole e forse per questo sono più intensi: “la prego sig. May, non aggiunga altro, ha già detto così tante cose!”. Poi, quando John esce, lei lo rincorre: “stavo pensando che venerdì potremmo andare da qualche parte a prendere qualcosa… un thé”; “Sì… mi farebbe molto piacere”; “a venerdì allora! e grazie… grazie per quello che hai fatto!”; “è solo il mio lavoro!”: che cazzo vuol dire: è solo il mio lavoro? In questi casi esiste un “lavoro?”. Ovvio che questa volta le fotografie hanno commosso entrambi e ciascuno non vuole tornare alla solitudine di prima. Ovvio che Kelly insegue John perché ha ritrovato qualcosa del padre (gli analisti ora parlano di configurazioni del padre… non “il padre”… ma qualcosa che lo concerne, un processo che lo definisce continuamente…), ed anche John, ha trovato qualcosa del padre.
Mentre John sta per lasciare quel lavoro dopo 22 anni, Billy è la sola possibilità di mantenere il contatto con qualcosa che non è il suo “dovere”, ma la sua passione: “Signor May… che notizie dal mondo dei vivi?”; “ultimo caso William Stoke”. Gli analisti sanno che la passione è una componente importante degli oggetti (Bion, 1963, 10 e 21); altri analisti sanno che la passione descrive gli oggetti che ti riguardano intimamente… quelli che chiamano Oggetti-Sé.
Alla fine mille percorsi si intersecano pur se, ancora una volta, un’altra parabola si è aperta e subito richiusa: Kelly non lo sa, ma la vita di suo padre e quella di John si intersecano nello stesso momento e nello stesso posto… in un certo senso nello stesso destino, ed ora ne è lei il crocevia. In fondo che bisogno c’è di saperlo: il film dice che è così e che non serve che noi dobbiamo per forza saperlo; è importante che accada e la vita è buono che ci preceda. Poi, alla fine, il luogo dove si ferma la vita di John richiama tutte le altre assenze che attraverso John hanno ripreso a vivere, ed è incredibile considerare come tanti percorsi si siano intersecati nel crocevia della vita di un uomo senza che loro lo sapessero. Ho pensato che è bello immaginare come ciascuno di quei personaggi che ora convergono sulla tomba di John non sapessero che la loro vita era passata molto vicina a quella di tante altre storie, ma solo John ne era il nesso. Però mi è dispiaciuto che il film me lo mostrasse, mentre avrei voluto mantenere la sensazione viva di quegli intrecci senza che un regista mi ricordasse che, alla fine, la storia era sua e se la riprendeva: che senso ha vedere tutti quei fantasmi incontrarsi sulla tomba di John May?
Ho lasciato il cinema portandomi via una certa commozione. Ho pensato al mio analista che ha custodito per me la mia storia che nessun altro (e neanch’io…) ha conosciuto come lui… e, ogni tanto, mi basta rivedere qualche momento della mia analisi per sapere che, nonostante l’evidenza, quella storia esiste ed è viva ancora, nonostante lui assente e nonostante me…
“sono necessarie almeno due persone per pensare”
(Ogden, 2013, 628)
febbraio 2014