Recensione di Angelo Moroni
Titolo: Split
Dati sul film: Regia di M. Night Shyamalan, USA, 2016, 147’
Trailer:
Genere: Thriller, horror
Trama
Kevin (James McAvoy) è un individuo nel quale convivono ventitrè differenti personalità, e le ha mostrate tutte alla sua psichiatra, l’anziana dottoressa Fletcher (Betty Buckley). Tutte tranne una, la ventiquattresima, nascosta, che sta lavorando nell’oscurità della sua mente per esprimersi e dominare su tutte le altre. Dopo aver sequestrato tre ragazze adolescenti, guidate da Casey (Anya Taylor-Joy), ragazza molto intelligente e coraggiosa, nella mente di Kevin comincia una vera battaglia tra le molte personalità che coabitano in lui e i confini instabili della sua identità cominciano lentamente ad andare in pezzi.
Andare o non andare a vedere il film
Girare un film su un tema così delicato, anche sul piano della diagnostica psichiatrica, come quello della “personalità multipla”, può molto facilmente portare un regista sul terreno scivoloso del grottesco, se non anche del ridicolo (più o meno volontario).
Non è questo il caso di M. Night Shyamalan, film-maker abituato a trattare in modo delicato e sensibile i temi del “perturbante”, del “doppio”, del “compagno segreto”, a partire dal suo film d’esordio, “Il Sesto Senso” (1999). In questa sua ultima opera, in particolare, si dimostra capace di aprire, attraverso la visione artistico-cinematografica che lo caratterizza, nuove luci sulle ombre spettrali che spesso avvolgono questo Disturbo di Personalità, peraltro epidemiologicamente raro.
Il film è dunque da vedere, anche per i movimenti di macchina, sempre calibrati ed espressivi sul piano estetico (soprattutto le morbide carrellate in avanti e le alcune inquadrature fisse con il protagonista al centro della scena), e per il montaggio, che spezza la narrazione con intensi flashback dell’infanzia della giovane Casey.
Il finale è decisamente spiazzante, con un capovolgimento di prospettiva gradualmente costruito, che è poi la cifra stilistica più rappresentativa di Shyamalan.
Merita senz’altro un apprezzamento l’interpretazione di James McAvoy, impegnato come protagonista in un difficilissimo compito, che è appunto quello di impersonare sulla stessa scena personaggi così differenti tra loro (anche per età: uno è un bambino di nove anni!), rendendoli a tratti forse un po’ caricaturali.
La versione dello psicoanalista
La dissociazione della personalità è forse uno dei fenomeni clinici emergenti più perturbanti nelle sindromi psicopatologiche che osserviamo al giorno d’oggi.
Il film è dunque interessante, soprattutto per uno psicoanalista, poiché muove molteplici riflessioni a vari livelli, ad esempio sulla “gruppalità interna”, sull’enigmaticità dei fenomeni dissociativi, sull’emergenza di Sé nascosti. A me pare che, tra i tanti, il tema dell’infanzia abusata sia quello che può destare maggiore interesse in questo film. “Split” ci parla, guardandolo con occhi attenti, del traumatico capovolgimento di prospettiva che avviene nel momento in cui un “caregiver” diventa il carnefice di chi dovrebbe proteggere. Questo è il nocciolo duro, il cuore stesso del fenomeno dissociativo, e forse è proprio per questo che Shyamalan sceglie come titolo quello di “Split”. Poiché “le vie dell’inconscio sono infinite”, può accadere che vittima e carnefice si scoprano in fondo non così diverse l’una dall’altra e si “riconoscano”, come a voler dire che la vera “bestia” è l’istinto di morte, la furia distruttiva del legame d’amore, rispetto alla quale, in molti casi, l’unica via d’uscita che resta al soggetto, come ultima, estrema difesa, è, appunto, la dissociazione.
Gennaio 2017