Soggetto, origini e memorie traumatiche:
This must be the place
Regia di Paolo Sorrentino, 2011
Recensione a cura di Angelo Macchia
“C’e’ qualcosa che mi disturba. Non so cos’è ma mi disturba”: e’ una delle frasi che Cheyenne, il protagonista, ripete nel film “This must be the place” (Sorrentino P., 2012). Primo segnale di una difficoltà di correlare una sensazione a una rappresentazione, tracce precoci di una scissione.
Un’altra frase che ricorre e’ quando qualcuno gli testimonia affetto:”non e’ vero ma e’ carino che tu me lo dica”. Una diffidenza fondata.
C’e’ qualcosa che disturba nel vedere Cheyenne. Provate a immaginare di salire in ascensore con lui, magari fino al sesto piano… O di trovarlo davanti a voi aprendo la porta dello studio…e vederlo camminare in quel modo mentre entra nella stanza di consultazione… e stare con quella maschera di fronte per i seguenti cinquanta minuti…
Molti hanno scritto che questo film sia incentrato sulla vendetta. Io penso invece che parli dell’umiliazione. I bambini non piangono per il dolore ma per l’onta subita. Il loro narcisismo e’ stato ferito ed e’ questa la ferita che sanguina più a lungo. C’e’ un cane ferito nella prima scena del film: qualcuno e’ stato ferito…
Quale ferita ha spinto Cheyenne a rifugiarsi nello splendore algido della sua villa irlandese, un luogo disperatamente bello quanto inumano, dove la piscina non e’ mai stata riempita, non si sa perché, e il calore del cibo e’ dato dal forno che cuoce una pizza surgelata.
Cheyenne ripete che il padre non gli ha mai voluto bene. Steiner (2011) sostiene che l’umiliazione sia da riconnettersi alle qualità dell’oggetto osservatore: sono sue le proprietà di elargire lode e biasimo che vengono incorporate nella formulazione classica del Super-Io. Le esperienze insoddisfacenti con l’oggetto primario danno luogo a senso di colpa, quelle relative all’oggetto osservatore generano la vergogna o l’umiliazione. Il ruolo dell’oggetto osservatore può essere appannaggio del padre oppure di una parte della funzione materna (Steiner, ibidem).
La madre nel film e’ una piscina vuota, non una piscina svuotata bensì mai riempita. Tracce di un’identificazione con la caricatura di una femmina, forse un modo per colmare il vuoto della piscina sono il pesante trucco che Cheyenne usa e in particolare il rossetto di cui lui e’ più esperto di femmine vere. Femminile, secondo Freud (1914) la modalità della relazione d’appoggio: il nostro protagonista si appoggia sempre a qualcosa: un carrello, una moglie che lui soddisfa sessualmente senza reciprocità, una giovane amica, un trolley.
C’e una madre nel film, figura enigmatica di donna che attende il ritorno di un figlio perduto, incarnazione di una depressione per un lutto sospeso a causa di una perdita incerta. Questa madre tiene invano in mano un telefono, emblema di un contatto che non si stabilisce, di una sintonizzazione mancata. Un telefono muto nelle mani di una madre è l’altra faccia di una piscina vuota.
Secondo Rosenfeld (1964) la funzione più importante del rapporto narcisistico è quella di impedire la separatezza tra soggetto e oggetto.
E di una depressione narcisistica e non melanconica qui parliamo. “tu non sei depresso ma annoiato” dice qualcuno. Qui non è la depressione per un oggetto perduto ma per una mancanza di senso. Cheyenne non sta elaborando il lutto per qualcosa o per un se stesso che non c’è più ma si misura con l’assurdo di un’esistenza priva di significato. Egli è prigioniero di un mondo ristretto di relazioni che lo proteggono rispetto alla sua angoscia più grande: quella della perdita dell’amore oggettuale (Kohut, 1971). La sua sessualità è l’impegno devoto di dar piacere all’altro, nutrire l’amore dell’altro per non esserne abbandonato, una sessualità indifferente al proprio piacere o impossibilitata a prenderne.
Fin qui lo scenario, si direbbe la diagnosi.
Poi, accade qualcosa. Succede cosi nei libri, nei film, nelle analisi, talvolta nella vita. Qualcosa si incarica di alterare l’equilibrio di un sistema apparentemente stabile e, perturbandolo, apre la scena a nuove opportunità e nuove possibili interpretazioni. La ‘chrisis’ degli antichi greci era il momento più alto della malattia, punto di biforcazione verso la guarigione o la morte. La chrisis del film è la notizia della imminente morte del padre di Cheyenne, quel padre che non vede da trent’anni. E che per vedere dovrebbe misurarsi con la sua paura di volare. Ma poiché egli non è pronto al cambiamento preferisce andare in nave. Una nave che lo farà arrivare troppo tardi per vedere il padre ancora vivo. Non abbastanza tardi da farlo sentire in colpa.
La morte del padre è piuttosto l’opportunità di entrare in contatto con la sua storia, quella della sua famiglia, quella del suo popolo. Scopriamo allora che il padre ebreo è stato internato in un campo di concentramento nazista ed ha trascorso buona parte della sua vita alla ricerca del suo aguzzino.
“Cosa sai dell’olocausto?”, “Ne so poco… Come so poco di mio padre”: la morte del padre è l’opportunità di incontrare Mordecai, che della ricerca di criminali nazisti ha fatto la sua ragione di vita, una sorta di analista esperto nella cura dei traumi che accompagnerà da lontano e con discrezione Cheyenne nel viaggio che questi intraprende raccogliendo l’eredità paterna, identificandosi con lui nella ricerca del criminale e dispiegando così la ricerca della propria identità.
Bruno Bettelheim, testimone tragicamente partecipe dell’esperienza dell’olocausto, ha coniato il termine di “mussulmani”(Bettelheim, 1967) per indicare lo stato psico-fisico di alcuni prigionieri dei campi di concentramento che sembravano accettare in modo rassegnato ed estraneo la loro condizione e il loro destino, senza tracce di lotta o speranza o disperazione; una sorta di distacco “orientale” all’avvicinarsi della morte, un distacco rispetto al mondo circostante che ricorda il ritiro degli pseudopodi dell’ameba citato da Freud nell’Introduzione al Narcisismo come ritiro dell’investimento libidico sull’io al fine di salvaguardarne la sopravvivenza (Freud, 1914).
Come mai Cheyenne sa così poco di suo padre? Siamo nel campo della rimozione o piuttosto nell’ambito di quei fenomeni che si collocano al di qua della rappresentazione? L’ipotesi è che in questo caso ciò che non si sa non è mai stato rappresentato e rientra tra quella memorie parziali a cui si riferisce Freud quando parla di atti psichici incompiuti, di pensieri mai formulati, di moti affettivi inconsci privi di rappresentazione (Freud, 1915), paragonabili alla realtà fisica dei ‘quanta’: cariche senza corpo/affetti senza rappresentazione, atti psichici intrasformati, incompiuti (Riolo, 2009)
La lentezza estenuante dell’incedere di Cheyenne, l’apparente distacco rispetto a ciò che lo circonda, sono la traccia di una memoria priva di rappresentazione che rimanda a eventi traumatici non rimossi in quanto non pensati perché avvenuti ben prima che lui nascesse: si tratta di una identificazione con esperienze che gli sono state trasmesse in forma muta eppure eloquente.
Stiamo parlando della trasmissiome intergenerazionale di eventi traumatici la cui articolazione contempla il riferimento ad una interpretazione in chiave intersoggettiva del concetto di identificazione con l’aggressore. Un concetto proposto originariamente da Ferenczi (1932) e sviluppato Anna Freud (1936), ripreso da Selma Fraiberg (1975) e altri autori fino alla lettura relazionale che ne da Seligman (2010):”l’identificazione con l’aggressore non elimina il Sé vittimizzato ma lo colloca altrove in modo proiettivo”. L’identificazione proiettiva gioca con tutta evidenza un ruolo centrale in queste forme di relazione in quanto e’ il meccanismo che permette non solo di liberarsi di sentimenti intollerabili connessi all’esperienza traumatica ma anche una forma di comunicazione che veicola le proprie emozioni all’altro. Propongo qui l’ipotesi che il padre di Cheyenne fosse stato un ‘mussulmano’ vittima delle atrocità di un lager nazista e che abbia trasmesso al figlio tramite un uso massivo dell’identificazione proiettiva le emozioni e i sentimenti connessi a quella tragica esperienza. La freddezza, il distacco, l’estraneità di Cheyenne sono espressione di una catena di identificazioni che dall’aguzzino di Aushwitz sono transitate al padre e da questi a lui.
A partire dagli Studi sull’isteria abbiamo cominciato a pensare a un corpo significante portatore di memorie traumatiche a cui il medico e’ chiamato a dare un significato all’interno del processo terapeutico. Freud stesso pero’ mette in guardia dall’attribuire agli eventi che si manifestano sul piano somatico una qualche attinenza alla simbolizzazione poiché nel corpo si realizza un significato concreto di natura primariamente sensoriale, asimbolico. E’ dunque il corpo uno dei luoghi del non rimosso, l’espressione di memorie prive di rappresentazione (Macchia, 2010). “This must be the place”: deve essere questo il posto. Deve essere questo, il corpo, il luogo da interrogare. Il vertice del cambiamento dell’osservazione da quello che sappiamo sul corpo a quello che il corpo sa di noi (De Toffoli, 2001) e a cui non abbiamo mai avuto finora accesso. E’ il corpo il deposito delle memorie traumatiche trasmesse di generazione in generazione.
Il viaggio-analisi di Cheyenne è un percorso alla ricerca di un padre sconosciuto e misterioso, di un passato finora senza storia, proprio come il suo passato da rock-star. E’ durante il viaggio che si svolge una delle scene più eloquenti del film: nello specchio del bagno di un anonimo motel, assistiamo insieme al nostro protagonista alla trasformazione del suo corpo. Sembra lo scioglimento di blocchi di ghiacci perenni il movimento morbido e armonioso dei suoi muscoli, di articolazioni finalmente libere di un movimento vitale. Egli sembra finalmente liberarsi dalle tracce di identificazioni patogene ed entrare in contatto col suo corpo, con se stesso, con una soggettività nuova.
E’ quanto ci accade di osservare in analisi quando vediamo i nostri pazienti al di qua o al di là del lettino. Quando le identificazioni patogene o bloccanti lasciano il posto ad acquisizioni identitarie più autentiche o vitali vediamo entrare o uscire dalla stanza d’analisi femmine diventate donne, compagne, madri; e maschi divenuti uomini, padri, figli. E’ solo un apparente paradosso il diventare figli perché figli si dovrebbe nascere. Eppure figlio diventa Cheyenne nell’ultima scena del film. Figlio adulto che va finalmente all’incontro con una madre.
Ma prima della fine del film, due parole sull’etica. Anzi, una grande scena sull’etica. La guarigione di Cheyenne passa per l’incontro col carnefice di suo padre e col sottoporre a lui l’umiliazione subita dal padre (e dai Padri) nel campo di Aushwitz. Per questo si e’ parlato di questo film come di una storia di vendetta. Qui si chiude il cerchio delle identificazioni tra aggressori e vittime, passando per un momento di vertigine che ci coglie nel sentire in bocca al vecchio nazista le stesse parole nostalgiche e poetiche che il padre di Cheyenne aveva scritto sulla dolcezza degli inverni in Polonia: chi le ha scritte quella parole, la vittima o il suo aguzzino?
Nella “Comunicazione preliminare” agli Studi sull’isteria Freud e Breuer (Freud, 1896) parlano della cura dei fenomeni traumatici sottolineando che il ricordo privo di elementi affettivi e’ inefficiente e che il processo psichico svolto in origine debba ripetersi con la maggiore vivacità possibile, riportato nello status nascendi per poi essere espresso in parole. Stiamo parlando qui dell’etica della cura psicoanalitica e stiamo estendendo il campo dei fenomeni traumatici da quelli vissuti dal soggetto a quelli sperimentati dal gruppo dei suoi ascendenti e che entrano a far parte del suo mondo interno. Ciò che rende la catarsi differente dalla vendetta è la parola; solo in questi casi l’abreazione dell’affetto è efficace. E qui l’intermediazione della parola e’ garantita dalla presenza discreta del vecchio Mordecai che con parole e testimonianza silenziosa dà senso all’azione.
A proposito delle memorie non rimosse, Riolo (2007) sottolinea che la ripetizione e’ il nostro migliore alleato e che nessun nemico può essere sconfitto in absentia o in effige. Aggiungerei dunque che non ci può essere cura senza ripetizione, non c’e’ guarigione senza la riproposizione meditata nel transfert. Questo è lo specifico della psicoanalisi, ciò che differenzia il nostro approccio da tutte le altre forme di psicoterapia.
Due parole infine sul regista del film, Paolo Sorrentino, che in tutti i suoi film ha esplorato con profondità gli scenari interni di figure maschili di vittime e carnefici fino al film che lo ha portato alla ribalta internazionale, “Il divo”: un ritratto geniale quanto inquietante di Giulio Andreotti. In un’intervista gli è stato chiesto a quando un film su Silvio Berlusconi. La risposta: “Per fare un film su Berlusconi si dovrebbe prima capire quale fosse davvero il suo rapporto con il padre”.
In attesa di fare un film su Berlusconi, Sorrentino ha pensato bene di fare un film sul nostro tempo che forse è solo l’altra faccia del berlusconismo. Una delle prime scene del film, quella della festa al suono del remake di Raffaella Carrà, è un altro luogo interno prima ancora che esterno: il luogo da cui il Jep che è dentro di noi dovrà partire alla ricerca di una soggettività altra, che non sia quella del ‘principe dei mondani’.