Cultura e Società

“Seaspiracy” di A. Tabrizi Recensione di S. Anastasia e E. Marchiori

8/06/21

Autori: Sergio Anastasia e Elisabetta Marchiori

Titolo: “Seaspiracy”

Dati sul film: regia di Ali Tabrizi, USA, 2021, 89’, Netflix.

Genere: documentario

 

 

 

 

 

 

 

 

Ali Tabrizi, il giovane regista di “Seaspiracy”, afferma di ispirarsi a famosi documentaristi come Jacques Cousteau, David Attenborough e Sylvia Earle, tutti oceanografi e divulgatori scientifici, ma di fatto si spinge verso quel giornalismo di inchiesta divenuto famoso con  Francis Moore (“Bowling a Columbine”, 2002; “Fahrenheit 9/11”, 2004).

Prendendo avvio dal problema dell’inquinamento della plastica in mare, Tabrizi si cimenta in uno scenario investigativo, fatto di interviste inquietanti e immagini di grande impatto visivo. Si addentra con tenacia nelle problematiche relative alla pesca e all’acqua-coltura, all’inutile uccisione dei cetacei e delle tartarughe, nonché alla schiavitù dei lavoratori.

Alla fine della visione, lo spettatore – non già vegetariano, vegano o crudista – si sente colpevole non solo di aver mangiato sushi, ma anche di avere in freezer il salmone, o persino di conservare in credenza delle banali scatolette di tonno. Si ripromette che mai più assaggerà nemmeno un gamberetto. Di questi tempi, però, la memoria è corta e ci domandiamo: la rimozione tenderà ad avere di nuovo il sopravvento?

Tabrizi si immerge letteralmente nelle profondità e nelle oscurità di mari e oceani, là dove mai si avventurerà realmente lo spettatore. La trama però incalza, lasciando intuire sin da subito la presenza di un nemico da svelare, che qui prende la forma di colui che distrugge il pianeta per il proprio tornaconto e guadagno.

Il regista accompagna lo spettatore all’interno dell’ordito di una trama maligna, in cui il cattivo – al riparo dallo sguardo della pubblica opinione – ferisce a morte il mare, l’aria e la terra, dando adito ai propri istinti predatori, alla noncuranza dei limiti e all’assenza di rispetto nei confronti degli esseri viventi. Il mondo descritto da Tabrizi è agitato dalla paura di ciò che possa accadere la notte sulle navi da pesca, lungo le coste dell’Africa, dell’Asia e ai limiti dell’Europa, dove il business è spinto sino ai suoi estremi, con tanto di vittime sacrificali – squali, delfini e balene intrappolati e uccisi nelle reti – con i fondali marini distrutti.

L’opera potrebbe essere vista come la metafora della possibilità di entrare in contatto e com-prendere le emozioni negative e gli aspetti più oscuri di noi stessi, ad aprire a esperienze nuove, scottanti e difficili, ma necessarie per compiere un percorso di consapevolezza: un viaggio caratterizzato da incertezza e grande turbamento (Ambrosiano, Gaburri, 2003).

È una no-man’s land quella descritta da Tabrizi, un’area fatta di sotterfugi, bugie e artifici, portati avanti da agenzie private che offrono certificazioni pagate dalle stesse compagnie di pesca, prive di ogni attendibilità.

L’assenza di etica, di regole, controlli efficaci e di trasparenza domina sovrana.

L’obbiettivo del regista di suscitare un misto di sentimenti di orrore, disgusto, senso di colpa e sdegno sul grande pubblico, per indurlo a informarsi, riflettere e aprire gli occhi è meritevole: la cecità e l’egoismo dell’animo umano, descritti così bene da Saramago (Cecità,1995), in questo scenario rischia però di diventare terreno fertile per idee cospirazioniste (questione delicata che coinvolge altre opere del genere), da cui il titolo del documentario.

“Seaspiracy” ha suscitato molte polemiche ed è stato accusato di semplicismo, di sensazionalismo e di citare fonti inattendibili o obsolete, non solo da esponenti del settore della pesca ma anche dalla comunità scientifica (https://ilbolive.unipd.it/it/news/seaspiracy-problemi-mare-raccontati-modo-parziale). Tuttavia, malgrado la validità di queste critiche, possiamo considerare questo lavoro, che punta i riflettori su una realtà comunque drammatica, come un’opportunità per fare chiarezza su problemi e soluzioni (https://www.editorialedomani.it/ambiente/sostenibilita-pesca-illegale-mar-mediterraneo-seaspiracy-netflix-x19mkwsa).

Per la psicoanalisi in ogni forma di perversione c’è un processo di degradazione dell’oggetto e Tabrizi sembra catapultarci in uno scenario di questo tipo: l’uomo cattivo che distrugge l’umanità del pianeta dove vive, per asservirlo ai propri bisogni e desideri, senza alcun limite etico e morale. Sappiamo come tale attitudine sia parte della natura umana, ma questo non ci solleva dalle responsabilità personali, dalla necessità di consapevolezza e di cambiamento delle nostre abitudini di consumatori “intensivi”. A tale aggressiva degradazione, alla nostra voracità e alla soddisfazione immediata dei nostri desideri si contrappone la capacità di avere rispetto, attenzione e cura per l’ambiente e il mondo in cui vive. È necessario puntare alla “sostenibilità”, ovvero “all’equilibrio tra prelievo e capacità di rinnovamento delle specie sfruttate” e a un approccio “ecosistemico”. Ma qui si tratta di scelte e volontà politiche globali oltre che del singolo individuo, come ci ricorda Greta Thumberg e il suo movimento Friday for Future.

Sappiamo, tuttavia, come la pesca artigianale avrebbe un impatto diverso sull’ambiente, ma è penalizzata dall’impoverimento della biodiversità marina e dalla degenerazione degli ecosistemi. Sono ancora insufficienti gli sforzi di regolamentazione, di condivisione delle risorse e di valorizzazione delle comunità di pescatori.

È possibile vedere nel sito della Tumbleweed films https://vimeo.com/tumbleweedfilms/underexposureroll02 un cortometraggio (distribuito da Pellicola Magazine) di tre giovani documentaristi (Giulia Fassina, Tomaso Semenzato, Pietro Torrisi) che guarda con altri occhi il mondo della pesca. Sono gli occhi del fotografo portoghese João Bernardino che, vivendo a Matosinhos, lo storico quartiere dei pescatori di Porto, conosce la comunità dei pescatori: li fotografa mentre sono intenti nelle loro attività, esplora la loro cultura e le loro tradizioni. Un patrimonio prezioso che sta scomparendo lentamente, minacciato dai tempi che cambiano, dal crescente progresso tecnologico, dalla pesca industriale.

Sono una decina di minuti di immagini impregnate di umanità e di saudade, quel sentimento di malinconica nostalgica cantata dal fado portoghese che, come cerca di spiegare lo scrittore Antonio Tabucchi (2010), ha a che fare, paradossalmente, con la speranza nel futuro.

“Seaspiracy” indica come unica via d’uscita la rinuncia a pescare e consumare pesce: scelta radicale e irrealizzabile a livello mondiale.

Al di là di posizioni ideologiche e convinzioni personali, il corto “João Bernardino”, che proponiamo a fronte della visione di “Seaspiracy”, sembra invece mostrare mondi e modi diversi e possibili, che esistono e chiedono di essere protetti, nel rispetto del mare, dei suoi abitanti e di coloro che ne hanno antica e profonda conoscenza.

Esistono probabilmente verità nascoste, ma pensiamo che ciò di cui ci sia bisogno prima di tutto sia la capacità di guardare la realtà già davanti ai nostri occhi, quella che non vogliamo vedere, perché vederla implicherebbe cambiare.

Per agire in modo diverso, per proteggere il nostro pianeta, bisognerebbe essere capaci di guardarlo con l’attenzione e il desiderio con cui una madre guarda il proprio figlio. È lo stesso sguardo di João Bernardino, colto con tanta vividezza da occhi altrettanto curiosi e rispettosi. La pandemia ancora in corso dovrebbe avercelo fatto capire.

 

Bibliografia.

Ambrosiano L. e Gaburri E. (2003). Ululare con i lupi. Conformismo e rêverie. Bollati Boringhieri, Torino.

De Martis D. (1989). La perversione. In: Semi A. (a cura di). Trattato di Psicoanalisi,  256-279 Raffaello Cortina, Milano.

Saramago J. (1995). Cecità. Feltrinelli, Milano.

Tabucchi A. (2010). Viaggi e altri viaggi. Feltrinelli, Milano.

 

Giugno 2021

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