Daniele Guaglianone, I, 2011, 109 min.
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Commento di Maria Vittoria Costantini
Ruggine, il film di Daniele Guaglianone sui traumi infantili e sulle loro conseguenze sullo sviluppo successivo è un film forte. Forse troppo. Pensiamo che darà origine a pareri opposti e a molte controversie.
Difficile raccontarlo senza rovinarne la vista; il film si svela un po’ alla volta, forse qualcuno comprende prima, qualcuno dopo, come me, stranamente: i thriller sono una passione. Ero solamente impossibilitata a pensare per l’eccesso di concretezza e avvolta in un bombardamento sensoriale, come con certi pazienti molto gravi.
Forse comunque questo è uno degli aspetti più interessanti del film che è un vero e proprio ‘thriller noir’.
Tuttavia sono stata disturbata nella visione di questo film fin dalla scena iniziale dove un bambino e una bambina hanno un incontro ambiguo sessualmente; a mio parere viene scambiata la sessualità infantile che sicuramente è presente anche nelle relazioni infantili con quella adulta. Sfidiamo chiunque a credere che una bimba di circa otto/dieci anni degli anni 60 dica al suo amichetto anche se tenero ‘qualcosa di più’: "però non mettermi la lingua in bocca".
E questa immagine è solamente la prima di bambini che dovrebbero giocare spensierati prima dell’orrore ma non è affatto così. In quell’infanzia non mi riconosco, la sofferenza infantile viene vissuta con animo adulto, le liti e le dispute tra piccole bande sono antipatiche anaffettive e mai comunque giocose. Non penso certo all’infanzia come a un luogo senza dolori e sofferenze ma c’è e ci deve essere differenza tra il mondo del bambino e quello dell’adulto. Questo film mi riporta ancora una volta al bel lavoro di Ferenczi sulla confusione delle lingue tra adulto e bambino. Quei bambini che giocano non sono veri bambini e non sembrano essere per nulla diversi dagli adulti post traumatici.
Come se il trauma fosse già iscritto nel loro destino. Anche il gioco che uno di quei bambini, diventato adulto, ripeterà un giorno con il proprio figlio (per quanto l’attore sia il simpatico Stefano Accorsi) è insopportabilmente intrusivo ed eccitante al puntola rendere lo spettatore insofferente.
Sembra quasi che il trauma infantile del padre sia sempre lì presente e gli rimanga così ‘incollato’ addosso tanto che l’unica esperienza relazionale con suo figlio sembra essere quella di stargli letteralmente ‘addosso’, non c’è scampo, nessuna distanza sembra immaginabile.
Paradossalmente ti senti quasi più vicino al mostro che è chiaramente matto che non alle vittime.
Per alcuni aspetti mi fa pensare a un appiattimento dello psichismo dove non c’è più differenza tra delinquenza e sofferenza ma anche ad una semplificazione della psicoanalisi dove ben sappiamo che il trauma non è lo stesso per tutti, che ognuno di noi ha una sua specifica storia intrapsichica e relazionale sul quale si abbatte il trauma ma per questa ragione il risultato non è così scontato – da A discende B – ma molto più complesso. Il film incatena, infatti, i tre personaggi principali non solo al trauma infantile subito ma ad un ambiente affettivo traumatico per niente attento alle esigenze interne del mondo infantile.
Mi sono domandata infine, data la presenza in sala di tutti quei bambini sorridenti e applauditi, così eccitati perché consapevoli di essere i divi del momento, quei bambini che magari mentre giravano non coglievano appieno il significato e la terribile violenza di quelle scene perché vengono spezzettate come ben si sa nella realizzazione, cosa hanno capito del film montato, se è stato un trauma per loro e quali conseguenze ne avranno al ricordo.
Speriamo solo che fossero troppo piccoli per cogliere la violenza del dramma, anche se il clima pesante sottolineato da una musica che ossessivamente ritmava le scene io penso lo abbiano sentito rimbombare dentro il cuore, come me.
In occasioni come queste mi domando se e come si può evitare l’uso dell’enorme potere conoscitivo e interpretativo dell’animo umano e delle relazioni interpersonali che la psicoanalisi offre come elemento positivo e non come uno strumento di banalizzazione che in quanto tale può diventare pericoloso, come usare la psicoanalisi per proteggere non solo i bambini ma anche i bambini dentro tutti noi.
Emblematica è la scena in cui i tre personaggi (protagonisti principali) sono drammaticamente soli con lo sguardo perso fuori dal finestrino della metropolitana eppure tutti nella stessa carrozza. I loro sguardi non si sfioreranno mai, non c’è nessuna possibilità di fermarsi e guardarsi in faccia, guardare in faccia la realtà interna per poterla narrare, se non attraverso il film.
Settembre 2011