Cultura e Società

“Richard Jewell” di C. Eastwood. Commento di A. Moroni

27/01/20
“Richard Jewell” di C. Eastwood. Commento di A. Moroni

The Ballad of Richard Jewell

Autore: Angelo Moroni

Titolo: “Richard Jewell”

Dati sul film: regia di Clint Eastwood, USA, 2020, 129’

Genere: drammatico, biografico

 

 

 

 

 

Ambientato ad Atlanta durante le Olimpiadi del 1996, il nuovo film del regista novantenne  di San Francisco ricostruisce un fatto di cronaca che mise sotto i riflettori, suo malgrado,   l’addetto alla sicurezza Richard Jewell. Quest’uomo riuscì a salvare la vita di un certo numero di persone avendo trovato, sotto una panchina, durante un concerto, il pericoloso dispositivo di un attentato dinamitardo. L’unico indizio a disposizione del 911 era stato un messaggio telefonico :“C’è una bomba al Centennial Park. Avete solo trenta minuti di tempo”. Jewell, che abita con l’anziana madre e che aspira a diventare un poliziotto, diventa così un eroe nazionale ma, nel giro di poche ore diventa anche il sospettato “numero uno dell’FBI”, con la complicità di una giornalista senza scrupoli. Rivolgendosi all’agguerrito avvocato Watson Bryant, conosciuto anni prima, Jewell professa con fermezza la sua innocenza. Inizia così una vera e propria guerra tra Bryant, Richard e i “poteri forti”.

“Richard Jewell” si colloca sulla stessa linea poetica del precedente “Il corriere” (“The Mule” 2019) nella quale Eastwood pone il tema del “fattore umano” come aspetto ineludibile, incontrollabile, e proprio per questo fondativo di un’Etica umana messa sempre più a dura prova dalla cultura post-moderna: giornali, televisioni, sete di successo facile, della visibilità a tutti i costi. Tutti elementi, questi, che sembrano essere diventati portatori di valori più importanti della stessa vita umana e della sua salvaguardia.

È il rapporto, sempre più conflittuale, tra individuo e sistema, innanzitutto di potere, ciò che Eastwood desidera esplorare e porre sotto la lente di ingrandimento della sua poetica cinematografica attuale. Il “grande vecchio” del cinema americano studia questo rapporto con uno stile che guarda chiaramente al grande cinema statunitense di tutti i tempi – potremmo anche dire che lo “convoca” – per esempio, a Orson Welles e a John Ford. Si tratta di un Cinema che non si fa intorpidire tanto facilmente dalle mode correnti, che non si fa incantare dalle sirene dei Social, del Web, della comunicazione velocizzata, vuota e “liquida” che caratterizza l’epoca che viviamo. Emblematiche in tal senso sono le sequenze che ricostruiscono l’attentato, con quelle carrellate dal basso verso l’alto e viceversa, sulla folla inquadrata in piani medio-lunghi, che si prendono tutto il tempo e lo spazio scenico possibile, in modo che lo spettatore possa immedesimarsi nell’evento nel modo più partecipato possibile.

Sul piano psicologico, e più specificamente psicoanalitico, il messaggio del regista rimanda alla necessità di una “cura”, che possiamo cogliere in senso quasi filosofico, quasi heideggeriano, di un umano individuale che si fa universale nel suo modo di agire etico ed intersoggettivo. Jewell sembra essere, infatti, una sorta di “personificazione” di questo “individuale” che si prende carico di una collettività messa in pericolo (la folla del concerto di Atlanta). L’ingenuità autentica di questa presa in carico, di questo senso etico, inteso da Eastwood come una sorta di innocenza originaria dell’uomo, è interpretata egregiamente dall’attore Paul Walter Hauser. Il suo avvocato, Watson Bryant (un intenso e bravissimo Sam Rockwell) ne è invece la rappresentazione plastica, come se il nostro buon vecchio Clint volesse, winnicottianamente, sottolineare che, nonostante tutto sopravvive la speranza in un’umanità, la quale ha ancora la capacità di ritrovare quel “seno buono” che un tempo ha nutrito l’individuo, nel suo “luogo delle origini”.

 

Riferimenti bibliografici

Winnicott, D.W. ( 1990), Dal luogo delle origini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996

 

Gennaio 2020

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