Parole chiave: Corpo, Soggettivazione, Perversione, Crescita Sessualità
Autore: Filippo Barosi
Titolo del film: “Povere Creature!”
Dati sul film: regia di Yorgos Lanthimos, USA, UK, Irlanda, 141′
Genere: commedia, grottesco
Il settimo film del regista greco Yorgos Lanthimos, Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia e candidato a undici premi Oscar, è una stupefacente creatura ibrida, di bianco e nero e di colori saturi, di convivenze che stridono e passano sempre vicinissime al troppo senza mai esagerare, come le chimere al tempo stesso penose e adorabili che gironzolano per tutta la pellicola.
“Povere Creature!”, tratto dal romanzo omonimo del 1992 di Alasdair Gray, è un viaggio che parte da una Londra gotica e steampunk, come si conviene piena di vapore, metallo e macchine bizzarre, e sgorga in un flusso travolgente e divertentissimo di libere associazioni senza morale — ma non immorali —, una mano giù a pescare nell’inconscio puro, senza simbolismi elaborati o sovrastrutture intellettuali da decifrare, più vicina al Lamento di Portnoy (Roth, 1969) che a Mulholland Drive (David Lynch, 2001), tra Frankenstein Junior (Mel Brooks, 1974) e il Tim Burton de La sposa cadavere (2005).
Le vicende di Bella Baxter (Emma Stone), corpo di giovane donna suicida e cervello del feto che aveva in grembo, sono un delirio controllato di sadismo e creatività, che si trasformano lentamente nel racconto della lotta per liberazione morale e sessuale della donna attraverso i secoli.
Bella, man mano che il cervello si sviluppa, impara a camminare e a conoscere il suo corpo da miserabile Lolita-Oggetto, immersa in una Confusione delle Lingue di ferencziana memoria (1933). Vederla donna con movenze da bambina ci spinge a immedesimarci nello sguardo di una serie di adulti confondenti, che distorcono la tenerezza e la seduttività del cucciolo fino ad abusarne, sfruttando perversamente i bisogni e la pulsionalità del polimorfismo infantile. Lanthimos in effetti fa ampio uso di un grandangolo deformante come fosse l’occhio di chi vede l’altro attraverso la bramosia del potere esercitato con il sesso, la conoscenza o la sopraffazione fisica.
“Povere Creature!” è una storia geniale di orrori e di trasformazioni, raccontata attraverso i corpi e i sensi ancor più che con le parole; una storia di umanizzazione a mio parere più vicina nella sua essenza a una declinazione moderna e femminista di Pinocchio che al più citato classico di Mary Shelley.
Il creatore di Bella, Godwin Baxter (detto God, Willem Defoe), è un grottesco dottor Frankeinstein a sua volta abusato e distorto dal sadismo del padre scienziato. Ridicolo e ripugnante, è il primo adulto mancato della storia, mai del tutto cresciuto e colonizzato dalle intrusioni paterne, col destino già inscritto nel nome. Anche se non incapace di tenerezza, fino alla fine non riesce a distinguere tra conoscenza e amore e a malapena trattiene gli impulsi sessuali per la figlia-creatura.
Bella è dunque creata orfana, costretta a nascere e crescersi da sola, appellandosi alla sua vitalità e curiosità per il mondo, imparando da sé a sfruttare i suoi “poteri”. All’inizio per difendersi e poi, col tempo e apprendendo dall’esperienza, per scegliere di chi e cosa circondarsi, in un percorso di emancipazione in cui si vede benissimo la psiche incarnarsi nel corpo, passo dopo passo, attraverso la scoperta del piacere e del dolore e fuori da ogni convenzione sociale.
Il suo è un “sensoriale venire ad essere”, per dirla con Winnicott (1956), sottolineato anche dall’evoluzione delle scenografie e dall’uso stesso del colore e della fotografia vivace che prendono sempre più il posto dei chiaroscuri iniziali.
Lanthimos getta un amo politico al tema del corpo e della soggettivazione femminile ma riesce a farlo senza la grevità del pamphlet moraleggiante, non perdendo mai la capacità di giocare trasformando, come un bimbo che inventa con la plastilina. Come scrive Flavia Salierno nella recensione scritta a caldo dalla Mostra del Cinema di Venezia[1] “Povere Creature! è “puro processo primario” in tutta la sua contraddittoria concretezza, piena di motti di spirito e di fluidi corporali.
La protagonista cresce quindi sulla sua stessa pelle, creando, sgomitando e… (non oso inventarmi un verbo per dire che si fa largo attraverso la genitalità, ma di questo si tratta!), infine trasformando la passività in attività e rompendo la coazione a ripetere dell’essere trattata come un feticcio.
In questo film c’è tantissimo da districare, ma su tutto prevale un inno alla libertà e alla diversità così come alla singolarità, intesi come antitesi della perversione, che livella tutti i rapporti e schiavizza la curiosità. Eppure la perversione resta sempre sullo sfondo come tentazione costante, come in effetti emerge nella punizione-trasformazione finale del personaggio più negativo e in fondo motore primo del film, pur catartica e coerente con tutto il resto.
Nel passaggio dall’essere creata all’essere figlia suo malgrado e infine, faticosamente, soggetto, persona, il film si muove dunque lungo la strada dall’appropriazione di sé, attraversando la lucentezza e lo squallore della vita. In fondo una replica del modo in cui si viene al mondo: nel dolore, nella meraviglia e tra gli umori più viscerali.
Il film si prende gioco di tutto questo facendone anche un fatto serissimo, ben consapevole del rischio della retorica nel toccare certi argomenti ma anche della necessità di parlarne, in un modo che riesce a mescolare con sapiente dosaggio “furiosi sobbalzi” tra profondità e leggerezza, creatività e perversione.
Che disgrazia e quanta grazia in queste “Povere Creature!”.
Bibliografia
Ferenczi S. (1933). Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione. In: Carloni G. (a cura di), Opere. Vol. IV, 91-100. Milano, Cortina.
Roth, P. (1969). Portnoy’s Complaint. Tr. it. Einaudi, 2005.
Winnicott (1956). La preoccupazione materna primaria. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi, Firenze, Martelli, 1975.
[1]