Recensione di Rossella Valdré
Piccoli crimini coniugali
Regia di Alex Infascelli, Italia, 2017
“La cosa più ragionevole è amare finché è gradevole. Si chiama razionalismo amoroso: amarsi finché durano le nostre illusioni; appena crollano, lasciarsi. E appena abbiamo a che fare con persone reali, non più con immagini della fantasia, separarsi”.
Questa è una delle molte dichiarazioni sull’amore e il disamore, sull’amore e la sua inevitabile fine, sulla sua illusione e sul suo intrinseco inganno, che costituiscono il bellissimo, arguto testo della pièce teatrale del drammaturgo svizzero Eric-Emannuell Schmitt, ora trasposta – non senza forzature – sullo schermo da Alex Infascelli. Benché i libri di Schmitt non siano nuovi a riadattamenti felici in sceneggiature (come “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” o il più recente “Oscar e la Dama Rosa”) questo testo, che ho sempre amato molto ed esplorato a fondo per alcuni miei scritti, è certamente il meno adatto ad una trasposizione cinematografica. La critica, infatti, l’ha massacrata, accusandola di piattezza emotiva e intellettualismo: due coniugi che si parlano addosso in una stanza, senza toccare i cuori. Forse, una regia e un cast francese, meglio in grado di rendere le impervie sfumature dell’animo, avrebbero meglio reso quell’atmosfera di ambiguità, odio e amore, sospensione e assurdo che abita questa coppia.
Tuttavia, pur trattandosi di un piccolo film che, forse, ha solo il merito di incuriosire a leggere il libro, io non sarei così severa. L’amore per il testo, per la sua irriverente intelligenza, l’acume psicologico e la profondità, trattata con ironia, mi hanno condotta comunque a sperimentare il film, e tengono lo spettatore attento, sfidando la possibile noia di un’ora e mezza trascorsa in una stanza.
Infatti, in quella coppia logorata da vent’anni di ambivalenze, che si è amata, odiata, costruendo sull’altro fantasie e caricandolo di proiezioni, noi tutti possiamo trovare aspetti di identificazione: niente ci è estraneo, pur nell’estremizzazione narrativa, nella cifra narrativa surreale che il regista stilisticamente sceglie.
La trama è una sorta di sogno: un uomo, Gilles, ha un incidente, ha perso la memoria, la moglie, Lisa, lo riporta a casa. Una casa che gli è estranea, come gli oggetti, il corpo della donna che tenta di rievocare ricordi, abitudini, tasselli per ricomporre il mosaico di vent’anni di vita. Il racconto di Lisa insiste: da un lato gli rivela un se stesso che non riconosce – scrittore di successo narcisista avvolto dalle sue opere – dall’altro rivela lei stessa. Si tratta di un progressivo denudamento a tratti triste, a tratti ridicolo, di una donna che teme il passare degli anni, lo sguardo di ragazze giovani, la crudele differenza tra l’uomo e la donna il cui sfiorire non si perdona, i suoi insuccessi come fotografa, la sua sottomissione a lui e al dolore che le ha procurato. Ma le cose non sono semplici, e il dolore non la allontana: “amo il dolore che mi dai”.
Gilles incalza giocando la voce del cinismo: nel matrimonio non c’è speranza.
Il film sacrifica parti del testo, ma mantiene quello che è considerato il monologo più bello – “vince chi arriva a sotterrare l’altro” – la “filosofia” (dell’autore?) messa in bocca allo smemorato: ci si incontra, ci si ama con violenza, poi si scivola in rancori e accuse, verranno figli che creeranno altri assassini e sotto la giustificazione “famiglia” tutto sarà coperto. Ma qui, chi desiderava sotterrare l’altro?
Il gioco narrativo si ribalta e forse la memoria di Gilles non era del tutto perduta; forse ha giocato al massacro per fare emergere le fantasie di lei, per vedersi attraverso gli occhi di Lisa; forse era dimenticato solo l’ultimo giorno, quello del fantomatico incidente.
Lasciamo al lettore la scoperta delle scatole cinesi che via via si aprono; non siamo di fronte ad un giallo e non ha alcuna importanza, se non squisitamente psicologica, o persino psicoanalitica.
Chi sono io, chi è l’altro con cui vivo da vent’anni? Lo conosco? Perché il legame ambivalente – che tecnicamente chiameremmo sadomasochistico – è così forte, il più forte che esista, senza quel male non posso vivere? E perché si resiste tenacemente, nonostante tutto, nell’inseparabilità che l’ottimista può leggere come forza dell’amore e il cinico come patologia? Piccoli crimini coniugali non risponde, gioca e confonde lo spettatore con le domande e il mescolarsi di fantasia e realtà, in accordo con la visione psicoanalitica dell’amore: siamo noi a inventare l’oggetto, lui è una creatura di lei e lei di lui, ma i soggetti reali non li conosciamo, né importa.
Pur con i limiti sopracitati della trasposizione cinematografica, gli attori (Buy e Castellito, quest’ultimo in particolare capace di rendere lo spaesamento del personaggio) danno il meglio di loro stessi, e il regista tenta qualche espediente per rompere la continuità del dialogo in una stanza. Tra questi, il più riuscito è, a mio avviso, il tenero ricordo, reciprocamente recitato, del loro primo incontro – verso un matrimonio che finirà, come è destino dei matrimoni – ma la scena rende l’idea che l’amore possiede una sua iniziale magia, un suo insondabile mistero, una sua promessa. Malgrado tutto.
Appropriata, dato che Infascelli nasce come musicista, la scelta della surreale disco music anni ’70 (I feel Love), passata come tutto è passato, in sintonia con il film, che va goduto come un sogno, una fantasia, un’invenzione narrativa piena di verità sulla vita e sull’amore, ma al contempo irrealistica. La stroncatura dei critici credo si debba, in conclusione, anche alla difficoltà a interpretare testi del genere.
Qui dobbiamo fermarci, siamo in quell’area puramente narrativa dove l’interpretazione incontra i suoi limiti e occorre rispettare quella che Eco chiamava “l’intenzione del testo”. Nella difficoltà di porsi questo limite, per chi per mestiere deve criticare, diventa facile stroncare. Allo psicoanalista e allo spettatore le battute fulminanti della guerra tra questi reduci stanchi, eppure inseparabili, muovono invece scenari interni cui siamo abituati a prestare ascolto, e che amiamo ritrovare nei personaggi e in dialoghi come questi:
Lisa: “Non si può eludere il proprio destino. Tu sei il mio destino […]. Tu ti sei immerso nei miei abissi più profondi, io nei tuoi, siamo schiavi l’uno dell’altra. Anche se non nella carne, sei il mio uomo nei miei ricordi, nei miei sogni, nelle mie speranze. È questo che mi lega a te. Possiamo anche separarci, ma non potremo mai lasciarci. Tutti questi giorni in cui tu non c’eri, eri assente da qui, assente da te stesso, io continuavo a rivolgerti i miei pensieri, a farti partecipe dei miei umori. Sai cosa vuol dire amare un uomo con amore? Vuol dire amarlo malgrado te stessa, malgrado lui, contro tutto e tutti. Vuol dire amarlo in un modo che non dipende più da nessuno. Amo i tuoi desideri e amo anche le tue avversioni, amo il male che mi fai, un male che non mi dà dolore […] Amare vuol dire avere quella resistenza che ti permette di passare attraverso tutti gli stati con la stessa intensità, dalla sofferenza alla gioia […] Anche se tu te ne andassi, quella parte resterebbe. In me c’è una tua forma. Io sono la tua impronta, tu sei la mia, nessuno dei due può esistere separatamente dall’altro.
Gilles. “[…] Tu vorresti che l’amore ti dimostrasse che esiste. È una strada sbagliata. Tocca a te dimostrare che esiste”.
Aprile 2017