Qui, in un incidente stradale, presenti Luca e la sorella Baba, muore la madre I due fratelli maggiori vanno a studiare in Inghilterra, Luca e Barbara in Italia. A Firenze Luca si diploma brillantemente in pianoforte, ma non diventerà un pianista classico. Due amici del conservatorio lo introducono al jazz. Il suo grande talento, unito allo studio febbrile, portano Luca a suonare con i più grandi musicisti jazz dell’epoca, fra cui Chet Baker.Il film traccia non solo la parabola artistica, ma anche gli amori, e poi i turbamenti, di un giovane uomo che non riesce a venire a patti con i fantasmi del passato, fino alla tragica esplosione della follia e della morte prematura. dal film…
Il film vorrebbe dire che l’amore può farti impazzire, oppure che l’amore, poiché è forte, ti può succedere che non lo reggi e ti farà tornare le ferite. Questo lo crede la gente, ma non è vero! L’amore ti fa impazzire quando (giustamente) vorrebbe costringerti a separarti da oggetti antichi ma non c’è ancora posto per nuovi oggetti. Magari questo è proprio quello che Ronald Lang qualche anno fa chiamava “debolezza ontologica”. Forse è proprio così, ma il film dice che però ne vale la pena perché l’amore non lo scegli e ti si presenta per forza anche se non ti accorgi degli occhi di Cinzia che non smettono più di desiderarti. Anche se sei fragile e segnato dalle ferite, l’amore ti si presenta e ti si offre perché viene con la vita, proprio come non puoi scegliere di vedere morire tua madre mentre stai giocando con i suoi occhi.
Ho pensato ad Anna che è partita con il suo uomo – anche lui frequentatore di ricoveri e di cliniche psichiatriche – per Praga “perché lì la vita costa meno e potremmo trovare una sistemazione. Cercheremo una casa a poco prezzo…Ezio potrà trovare un lavoro… lì la vita è più facile!”. Nessuno di noi ha sentito che Anna ed Ezio avrebbero potuto realizzare il loro progetto! Tutti abbiamo pensato ad un progetto infantile… un sogno fatuo che si sarebbe scontrato con la realtà. Però, nonostante tutto, queste situazioni ti insegnano che “… dev’esserci una libertà da sognare, un traguardo estremo, tenendo l’anima coi denti…” (Sofri, Repubblica, 23.12.2007). Conosco Anna da molto tempo e so la sua disposizione a trovare soluzioni facili ed impossibili che puntualmente la riportano a star male. So anche che, potendo, le avrei sicuramente evitato questo viaggio… avrei cercato di proteggerla, perché conosco bene le sue fragilità… Ma i sogni vengono e non li puoi fermare… ti ci devi affidare. Quello che si può fare (è un diritto di ciascuno di noi…) è che a fianco al tuo sogno si tenga qualcuno pronto a prenderti quando il sogno si esaurisce. Con i pazienti come Anna ho imparato a leggere i percorsi dal loro vertice positivo, ovvero il percorso fino a dove si riesce ad arrivare, piuttosto che la sospensione rassicurante e preventiva del percorso: “How far can you fly?”. E’ un rischio, ma è il mio mestiere. Ho letto il progetto di Anna esattamente come un sogno in cui provava a sentire che l’amore per lei sarebbe possibile se solo la realtà diventasse più benevola e meno complessa: “dottore, lì la vita è più facile…!”.
Cinzia cerca Luca e, sulle rive dell’Arno, lo bacerà. Luca è lento a capire che Cinzia col desiderio lo seguiva da tempo forse perché fa fatica a lasciare la spiaggia del Kenia dove la madre, un giorno, lo aveva seguito con lo sguardo mente lui si avvicinava all’acqua del mare; fa fatica a lasciare la strada dove la madre, giocando con lui con lo specchio retrovisore, andrà a morire. Forse ha deciso che non incontrerà più quello sguardo di donna, particolare che, puoi essere fra mille persone, nascosto, viene per forza a legarti perché ti prende gli occhi non appena li sollevi dal pianoforte e guardi nello specchietto retrovisore. Ai film piace l’idea che un trauma possa decidere la vita di un uomo, ma gli analisti sanno che le cose sono più complesse, che non è mai dato sapere quanto il trauma sia nelle cose o nella persona. Ma il trauma, quello che viene da fuori, ci piace molto, ed è ragionevole sia così. Per questo Luca chiama trauma quella sensazione antica che ti ha fatto perdere ogni legame e che non ti lascerà mai: “Una cosa è suonare in libertà, altra cosa è suonare ognuno per proprio conto!”. E’ strano che la differenza fra libertà e confusione la descriva Luca, proprio lui che poi sarà preso dalla confusione senza più essere capace di libertà. Nonostante questo tipo di trauma sia quello che piace molto ai film, gli analisti sanno che, a fianco al trauma, c’è sempre una zona – più o meno ampia – in cui ciascuno conosce i legami e la libertà, ed è quella – solo quella – che permette le cure! Non esistono i traumi, esistono gli episodi che possono tornare e che chiedono di diventare diversi. Ho pensato che allora, quando parla con i due amici del gruppo jazz, Luca è ancora sano, seppur poggiato su un enorme vuoto (Lacan) e conosce bene la fatica che deve fare per sentirsi libero, proprio mentre comincia a sentirsi risucchiato dalla confusione: gli analisti sanno che è proprio la conoscenza intima di questa sensazione di libertà che permette le cure…. E’ la stessa cosa che gli dirà poi il padre, quando si fermerà con lui, sui monti a curare i pensieri: “ io ti vedo come un solista…. Noi Floris siamo dei solisti!” Luca è già preso dai pensieri malati e legge tutto secondo il diaframma della propria sofferenza. Risponde: “chissà se poi è un bene!”.
Quando Luca torna in Kenia è la luna di miele della mente dopo che ha conosciuto la psicosi; in un certo senso il pericolo più grave: l’eccitamento che ti viene dalla illusione – in quel momento assolutamente vera e possibile – che il tempo non passa e che in un posto, e solo per te, il mondo conserva tutto quello che ti è appartenuto, cristallizzato, esattamente come era allora. E quindi: le lettere alle sorelle, al padre, al cognato: “i colori sono quelli che conoscevo… sono stato sulla spiaggia dove siamo stati tante volte noi Floris… lunga mille chilometri…”. Finché, inevitabilmente, ti ritrovi a considerare che il tempo è venuto ed è andato, portando con sé quello che tu, con la tua musica cercavi continuamente di cantare e di mantenere vivo e presente. La psicosi alla fine è un evento di una semplicità disarmante: l’impossibilità per la mente a poter accettare le perdite. La musica ti ha aiutato a sostenere le perdite ed è per questo che anche se tua sorella viene a cercarti tu non te ne accorgi nemmeno, solo perché la musica ti unisce direttamente all’oggetto che se smetti di suonare lo perdi: “scusate…è che le scale mi risucchiano… non mi ero accorto!…”. Le cure per mille vie cercano di allearsi al tempo che procede, e di coglierne la spinta vitale al cambiamento.
Luca non suona il dolore (quello appartiene alle capacità di essere nella storia e il dolore appartiene alle storie), Luca suona per non sentire il dolore… anzi suona perché è il solo modo che conosce perché il dolore non esista. Allora: tu sei il suono, tu sei i tasti del pianoforte perché non ti interessa della musica, ma del fatto che una volta il disco del mondo – quel pezzo di Bach, il solo disco che conosci (che hai sentito) – tua madre lo suonava al tuo fianco e tu lo suonavi con il dito indice. Luca suona per mantenere all’infinito l’esistenza di quel momento in cui, seduto sullo stesso sgabello, senti il calore del corpo di tua madre.
Ad un certo punto il mondo prende a muoversi e Luca, ora, suona per Cinzia: “ho scritto questo pezzo per te… appena sfornato!” Lei lo ascolterà commossa e quella musica dice che lui la ama ed è per questo che non può dormire. Il film racconta che, come alcune volte succede, Luca aveva trovato un modo particolare ed esclusivo di parlare al mondo e di esistere e quello era il linguaggio della musica e attraverso questo aveva conosciuto e poteva conoscere l’amore. Allora la fine viene quando la musica non riesce più a tenerti in contatto col mondo e con i tuoi oggetti primari…. Qualcosa non funziona: “Baba… ho paura di diventare pazzo… mi succedono cose strane… mi estraneo dal mio corpo e devo controllarlo… magari con dei fili… da fuori… Baba promettimi… senza camicia di forze!… me lo prometti?” Mi sono chiesto come mai Baba trovasse impossibile dirgli di sì… peraltro lo pensano tutti … si sa… ai pazzi bisogna sempre assecondarli! Ho pensato che Baba non poteva assecondarlo perché gli voleva bene, e nel dolore anche per lei quello era il fratello di sempre… quello della spiaggia dei Flores lunga mille chilometri! In un certo senso, neanche lei – per amore – poteva accettare che nonostante tutto, suo fratello stava cambiando ed ora le diceva che era malato.
Luca che tenta di vivere. Lo chiede alla musica che deve aver rapito e custodito per lui, e per sempre, il sorriso della madre e il calore del suo corpo. Un calore che ti può tornare ogni volta che le dita – questa volta tue e non quelle di tua madre, ma che cosa importa, qual è la differenza? – fanno cantare i tasti freddi di un pianoforte. Gli psicotici sanno che, per sopravvivere, hanno gelato la sequenze della vita in fotogrammi e le tue mani possono essere quelle di tua madre, e la musica può essere il suo calore e l’emozione di allora può essere richiamata ora, come se il tempo non fosse passato mai. Fotogrammi. Perché le scene, invece, custodiscono sempre la fine e l’inizio.
E’ facile pensare, durante e soprattutto dopo il film, che Luca non abbia potuto trovare le cure e che molti di noi avrebbero avuto possibilità migliori da proporgli e che proprio la storia di Luca dice che ora i nostri servizi sono diversi e le nostre cure sono migliori. Di questo io sono sicuro, ma a che serve? Si tratta di un altro discorso! Dopo il film ho evitato questi pensieri, i più immediati… quelli definiti che ti dicono chi ha torto e chi ragione, chi sbaglia e chi fa il giusto e ho seguito, invece la seduzione sottile di una sensazione amara che non capivo e mi teneva. Mi sono sforzato ed ho visto che mi venivano alla mente tutta una serie di pazienti gravi che seguo da anni e che so che sicuramente continuerò a seguire finché le vicende concrete della mia e della loro vita lo permetteranno. Mi si è fermato il pensiero su Paolo, sicuramente fra i più gravi e disperanti che, quando va bene, posso incontrare a casa o per strada. Nonostante tutto, io e lui sappiamo che le cose vanno bene e qualche volta ce lo diciamo. Qualche settimana fa ho dovuto ricoverarlo e non è stato facile. Quando sono andato a trovarlo in reparto mi ha accolto con cortesia, ma era ancora arrabbiato. Mi ha detto: “lei mi fa tenerezza, dottore!”. Il tono era proprio come se mi avesse detto “lei mi fa schifo!” Gli ho chiesto, “cosa significa?”. Mi ha spiegato che rispetto al mio stipendio lui disponeva di più soldi (aveva fatto bene i conti e aveva ragione!…) e quindi ha precisato: “lei, dottore, rispetto a me è un poveraccio!”. Perché la tenerezza invece dello schifo? Perché la fatica e il senso di miseria a confronto con lo strapotere? Forse Luca smette di vivere perché a volte lo schifo non riesce a diventare tenerezza (Freud, 1914; Gaburri, 2007) e ti ritorna, esatto e uguale quando Cinzia non smette di guardarti e ti vuole amare e tu provi a regalarle la musica, ma la musica non ti basta se deve solo farti sentire Dio che non sarà mai uomo e non sarà mai un poveraccio!
“How far can you fly?” è l’ultimo pezzo che Luca scrive. Volare è il passo leggero della psicosi. Fa venire in mente mille altri film in cui la follia ha la figura di uccelli e di farfalle: forse l’antica immagine di un cavallo alato che ti porta finalmente al senno perduto, forse la nostra reazione simmetrica a una sensazione pesante che viene dai pazienti. Nonostante tutto, e nonostante sia una terribile forma di dolore, la follia per noi continua a custodire l’immagine di purezza e di leggerezza, tutto il contrario del tempo che passa: ali leggere, cielo da conquistare… qualcosa in cui la gravità si esime dal tirare giù il tuo corpo. Luca ha suonato l’amore per Cinzia, ma ciò non è bastato, non è stato sufficiente per rimetterlo nel flusso temporale della vita dove tutto esiste perché tu possa separartene. Nell’ultimo messaggio deve separarsi da tutto ed è già in un’altra dimensione. Luca suona, lucidamente, l’addio questa volta da suo padre. La lettera di commiato sembra la nota all’inizio di un viaggio, la promessa di un concerto: "a differenza delle parole che ti tradiscono con il loro significato, la musica non finisce mai… amo quei compositori che suonano le note come se ogni nota fosse l’ultima…".(*)
Giuseppe Riefolo
(*) pubblicato anche su www.istitutoricci.it