Cultura e Società

Palermo Shooting

12/11/09

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Wim
Wenders, Germania, 2008

 

Commento
di Andrea Marzi

Presentato
alla Rassegna "Ciak si gira"-Cinema e Psicoanalisi-Siena-12/10/2009

 

Fra le
molte citazioni dirette o alluse che sono disseminate nel corso del film, mi
piace cominciare con quella contenuta proprio all’inizio: il protagonista è in
piedi, di spalle al pubblico, guarda la città, in una luce imprecisata,  come l’Ulisse ne "L’énigme de l’oracle" di
Giorgio De Chirico,  (1909)[1],  in attesa del responso, scrutando
l’orizzonte del proprio destino.

Ma Finn
Gilbert è all’opposto dell’eroe omerico, che è saldo nella sua identità,
consapevole dell’incertezza della vita, edotto sulla certezza della morte, del
tempo. Egli è invece molto più confuso e inconsapevolmente disperato: cade, non
riesce ad aggrapparsi al suo tempo, che gli sfugge, perde tempo e perde il tempo, lo smarrisce smarrendosi a sua
volta.

Il tempo
è in effetti uno dei temi forti di questo intenso film di Wenders, che, al di
là di un certo sapore didascalico quasi apologetico, rivela contenuti di grande
importanza ed interesse non solo sul piano estetico ma anche su quello
psicoanalitico.[2]

Il tempo,
come in una matrioska, è anche la scansione della parabola esistenziale di Finn
ritratta nel film: c’è un primo tempo e un secondo, molto diversi fra loro,
segnati da   un’emblematica,drammatica
evoluzione, un intenso quadro dinamico.

Nella prima
parte dunque ci appare Finn, fotografo di fama mondiale, uomo intrappolato
nello scacco esistenziale di se stesso: apparentemente realizzato, osannato e
straripante di successo, vive una vita che, sul piano analitico e anche su
quello antropo-fenomenologico, possiamo definire come sostanzialmente intrisa
di maniacalità.

Nel suo
volto si legge un insinuante disprezzo per le cose e le persone che lo
circondano, misto ad unsenso di dilagante noia e non senso esistenziali, a
negare qualsiasi dipendenza o co-dipendenza con un atteggiamento
surrettiziamente svincolato da qualunque relazionalità più solida, e con la
pretesa di dominare onnipotentemente tutta la realtà tramite le sue panoramiche
a 360° su di essa.

In questo
modo Finn tenta di risolvere i complessi vissuti che si porta dentro – che si
porta sulle spalle, come la madre in sogno: aspetti luttuosi che non riesce ad
affrontare e nega, pervicacemente, scagliando se stesso in una vita-non vita,
dove i rapporti intrapersonali e interpersonali sono degradati nella qualità;
anche se sul piano esteriore si mostra vivace, dinamico, up to date, produttivo, mordi e fuggi anche nei rapporti
sentimentali, consumati nella dependance
della discoteca, che è come un ventre materno piegato alla modalità
narcisistica e maniacale che lo caratterizza, un rifugio che ha poco di
relazionale, mostrandosi piuttosto come elemento schizoide.

La sua
vita, lo si vede rappresentato nel film e/o lo si intuisce dalla
caratterizzazione del personaggio, è tuttavia parcellizzata, frammentata,
sminuzzata, perché i suoi oggetti sono ridotti così, sono "cose" in mano al
Sé/burattinaio che gestisce e manipola. La ricostruzione da dentro di questo
mondo sgretolato per l’insopportabilità del dolore che provoca (la scena della
mamma portata in spalla fra gli scheletri palermitani è di grande suggestione
in questo caso, e ha in sé tutta la sgradevolezza che il macabro può
ingenerare) implicherebe l’aggancio al tempo e allo spazio, con la corretta
percezione e interpretazione di ciò che è esterno e ciò che è interno: ma Finn
è un uomo disturbato profondamente nella sua temporalizzazione, portatore di
una lacerazione (Binswanger, Melanconia e Mania, 1977) dove il passato e il
futuro tendono a dissolversi in una momentaneizzazione
(Cargnello, 1977) fatta di attimi irrisolti e non vissuti di presente,
individuabili come superficiali e fulminei, senza storia, imprendibili nella
loro precipitosità, nella frenesia turbinosa che li caratterizza ma che non può
dare alcuno spessore esistenziale e psicologico ad essi.

Finn non
vive in un mondo diverso dal nostro, come suggerisce ancora Binswanger, ma "in
frammenti di mondo che non sono più tenuti insieme da nessun principio d’ordine
superiore" (cit.,pag 81)  Il passato
insiste solo come incubi irrisolubili o svanisce facendo mancare le basi al
presente e al futuro, incarcerato com’è in una attualità circolare in fondo
priva di senso.

Il suo
spazio si espande gonfiandosi, tutto si orizzontalizza e si riduce
rimpiccolendosi: "Le varie istanze mondane ..gli vengono incontro e tosto si
allontanano.Ed è proprio per questo loro carattere di troppo vicine ch’esse
vengono a destituirsi della loro distanziazione, che vengono a perdere il
criterio fondamentale per poter rivelare in pieno il loro significato…"
(Cargnello, 1977, 251). Finn non arriva all’"Uomo della fuga delle idee",
tutt’altro, ma è certamente molto a disagio con la sua esistenza che gli
propone accelerazioni e livellamenti che non riesce più a sostenere, anche se,
inquietantemente, la sua personalità, la sua vita in generale appare ben
adattata a un certo mondo, a una certa società di oggi, che propone e promuove
condizioni siffatte, aspetto questo che ci lancerebbe in considerazioni,
impossibili in questa sede, concernenti proficue incursioni analitiche sulla
natura profonda di certi atteggiamenti e comportamenti sociali del mondo
attuale.

Finn, in
realtà, si avvicina sempre di più ad uno stato di grave scompenso interiore, la
frattura fra Sé e i suoi oggetti, la dis-integrazione che lo pervadono lo avvicinano
pericolosamente ad uno stato di profonda alienazione, dagli altri, da se
stesso, dagli oggetti del mondo interiore.Questi ultimi, la cui problematica
conflittualità forma forse la sostanza del misterioso, irrisolto, assente
responso oracolare dell’inizio del film, sono resi così per negare la loro
angosciosa natura, sono svalutati e appunto frantumati, amputati da sé.

Infatti
Finn vive lontano dai suoi sentimenti, non ha presa sulla realtà, crede di
tenerla in scacco ma è il contrario,  il
suo narcisismo onnipotente si illude di dominarla, ma non fa presa su di essa,
scivola e cade, come nelle sue immagini oniriche ricorrenti, è marcatamente
anaffettivo, è convinto che "non c’è niente sotto la superficie" (come dice
alla giovane fotografa che lo contesta), è il tragico emblema di una sorta di
degenerazione postmoderna dell’esistenza dove tutto è superficie, evanescente, multiplo,
un’ infinità imprendibile e momentanea, irrisoria e alla fine disperante.
Immutabilmente vestito allo stesso modo giorno dopo giorno, ascolta di continuo
musica a volume altissimo, ma non per adeguato nutrimento estetico, quanto per
assordare se stesso, come aiuto drogastico all’isolamento e al distacco, alla
dissociazione affettiva da se stesso e dal mondo. Nelle "discoteche illuminate
piene di bugie" , ma ancora più assatanate di quelle ancora "casalinghe" cui
alludeva Ruggieri nella canzone, si consuma tutta la vicenda del  protagonista, incastrato in una condizione
che sembra paradossalmente il massimo della realtà e della soddisfazione
(drink, divertimento, donne, successo e fama) ma che invece è il prodromo di
una caduta potenzialmente irreversibile. E’ anche l’uomo "che non dorme mai", e
non solo perchè è insonne a causa dell’incipiente crisi psico-esitenziale che
lo allagherà ben presto, ma perché in realtà non è mai né sveglio né
addormentato, perché bionianamente pare privo di "barriera di contatto".[3]

Non
riesce a discernere quanto gli appartiene da quello che è esterno a lui; il suo
mondo interiore, inelaborato e non metabolizzato, irrompe di continuo nella
coscienza (e viceversa) in un falso movimento che non gli permette di far
partire davvero il tempo, ma lo tiene immobile in una dimensione dove la
momentaneizzazione maniacale e narcisistico onnipotente, di cui prima si
diceva, domina incontrastata, mostrando un trionfo che è una tragica vittoria
di Pirro, e che lo logora sempre di più.

La
manipolazione digitale e l’effimero della foto di moda sono il suo pane
quotidiano, perciò; ma come gli dirà Dennis Hopper/Morte, lì tutto è confuso:
"Tu cerchi di ricreare la realtà…questa è la paura della morte."

L’incidente
automobilistico, evitato per un pelo, mentre sta facendo uno scatto circolare
che, nell’illusione di catturare tutto (a 360°, infatti), per poco non ritrae
anche la Morte stessa, invece ritrosa a qualsiasi prendibilità, comincia a
rompere il guscio onnipotente in cui si è relegato, procurando un angoscioso ma
proficuo attentato alla pretesa autodistruttiva di dominio sulla realtà esterna
ed interna, mostrando la sostanziale impossibilità di controllo totale sulla
fisicità e sullo psichismo da parte del soggetto, decentralizzandolo dalla sua
pretesa ciecamente titanica anche se apparentemente fatta di una ripetitiva,
accecante banalità quotidiana.

Qualcosa
non regge, quindi: Finn comincia a cadere, a precipitare in verticale, come il
troncone del Titanic nel suo inabissamento filmico. Ed in effetti la colonna
sonora rimbomba spesso degli stessi suoni cupi ed abissali che ci sono nel film
di Cameron: si sta scivolando verso il fondo, dopo il naufragio esistenziale.

La vita
di Finn, apparentemente ottimale, progressivamente non funziona più, non
riesce  più a fargli evitare
l’appuntamento con una crisi psico-esistenziale che lo scuoterà come un
terremoto.

Il film
si apre infatti quando tutta la maniacalità e il narcisismo è in crisi, quando
comincia la crisi, la rottura della bolla narcisistica che lui si è costruito.

Il primo
singulto di cambiamento avviene quando, come si diceva, il nostro fotografo per
poco non muore nel paventato impatto automobilistico: lì la morte fisica sembra
aprire una breccia di crisi nel mondo illusoriamente immortale del
protagonista, anche se appare chiaro che quello che lui rischia davvero è la
morte psichica, la morte della sua esistenza mentale ed esistenziale.

Da lì in
poi, inizia il secondo tempo del film come secondo tempo dell’esistenza di
Finn, che da allora precipita in una condizione surreale dove vive esperienze
sognanti e/o simil allucinatorie, trova "fidi pastori sostituti" in smoking,
pecore al pascolo che invitano al rallentamento del tempo, addirittura Lou
Reed, davvero fantasma proveniente da chissà quale Sotterraneo di Velluto
(Velvet Underground si chiamava un suo famoso gruppo), infine  una nave sul fiume, che indica una
direzione: potremmo a ragione pensare che è la nave della psicoanalisi che si
limita a suggerire un viaggio, una freccia direzionale che può scegliere di
seguire o meno.

Lì c’è un
abbozzo di pensiero, un sussulto ancora malacico della sua funzione α, potremmo
dire in termini bioniani, che vuole spingersi a produrre elementi di pensiero
che possano finalmente conferire al protagonista la capacità di distinguere la
realtà, di potere dormire essendo davvero addormentato,  per diradare la confusione mentale che lo
devasta seducendolo con un’esistenza fittizia che è come un canto delle sirene.

La sua Recherche comincia scegliendo di andare
a Palermo, come luogo d’opposizione al routinario, al frenetico falso vivere,
dove poter cogliere innanzitutto un momento di genuinità, intanto cominciando a
strappare alla freddezza economica delle foto di moda alcuni scatti della vita
nascente nel ventre della modella, e poi lasciandosi andare a farsi penetrare
da un’esperienza che lentamente si insinua dentro, attraverso strade
sconosciute, vicoli misteriosamente collaterali, labirinti toponomastici in cui
il degrado urbano assurge a elemento alternativo rispetto ad un prima tanto
lindo quanto patogeno.

Wenders
va a cercare una sorta di landa non toccata dal "logorio della vita moderna",
si potrebbe dire rammentando un celebre carosello della mia infanzia (ripreso
ironicamente di recente da Elio e Le Storie Tese), e lo fa un po’ alla
Pasolini, virando però verso colori ed atmosfere che portano Bergman e Dreyer.

E’ pur
vero che in questo concede un po’ troppo all’ideologia alternativa tutta nord
europea per cui la ricerca di una sorta di primordialità sia comunque e sempre
sinonimo di genuinità e libertà, in una sorta di spontaneismo in realtà molto
ideologizzato;  ma  insieme con queste ventate nordiche sul sud
d’Europa arriva anche la necessità di giungere all’incrocio dove bisogna
scegliere una strada evolutiva, che tuttavia, per essere tale, pare debba
necessariamente condurre nel "Cortile della morte" (un cortile di Palermo che
Finn trova "casualmente"), al "Trionfo della morte"[4] ,
all’incontro con essa che, a differenza della colorazione filosofica e
tormentata che assume nel "Settimo Sigillo", qui si mostra indispettita,
aggressiva, morte attiva, che vuole ghermire il protagonista, lo insegue, gli
spara frecce proprio all’incrocio esistenziale (I "Quattro Canti" di Palermo)
dove la mente può perdersi negli abissi dell’allucinazione, può di nuovo
sprofondare, in una sorta di Titanic tutto personale (la caduta in acqua al
porto), dove la morte (psichica, ancora) l’abbia vinta, e la realtà sia invasa
da fantasmi surreali, senza possibilità di discernimento.

Ma se è
invece possibile cogliere la chance
di sostare col proprio mondo interno dentro ad un ambiente vero, genuino,
originario (Palermo è come l’allusione ad un setting psicoanalitico che per
quanto spiazzante, non routinario, misterioso, è fecondo d’esperienza, una
Palermo come viaggio, smarrimento e ritrovamento), allora diventa possibile
mettere in moto il tempo e lo spazio, metabolizzando la spersonalizzante
condizione quotidiana precedente (quasi una vera depersonalizzazione, o una
derealizzazione) e ritrovare se stessi come persona.

Nessuna
ulteriore evoluzione sembra però possibile per Finn se non riesce a ritrovare
un principio vitale all’interno della Palermo/madre psicoanalitica che solo
possa conferire all’esperienza valore e spessore, anzi che possa conferire a
lui uno spessore, sollevandolo da una bidimensionalità interiore senza volume,
piatta e molto dannosa.

E’ Flavia
questo principio, ovviamente. La donna/analisi che "ristruttura" la morte
(Flavia fa la rstauratrice) e che maternamente lo raccoglie, lo sostiene, lo
aiuta, lo spinge a percorrere fino in fondo un cammino di crescita, dove
l’onnipotenza e il suo necessitato opposto, l’impotenza (Finn enorme nel letto
e microscopico) siano lentamente elaborate: verrebbe da pensare che lì il
bambino Finn coglie che non è né quell’essere superumano che pensa di poter
fare a meno di qualsiasi relazione o dipendenza, per quanto co-dipendenza, né
assolutamente impotente perché abbandonato e lasciato solo in una culla che
diventi uno spazio senza limiti,  senza
punti di repere per ilsuo Sé
fratturato e frammentato.

Nella
progressione evolutiva dell’uomo/bambino Finn c’è bisogno tuttavia di cogliere
insieme con Flavia un’esperienza profonda e fondamentale, direi per entrambi i
protagonisti, cioè Finn/paziente e Flavia/psicoanalisi: l’esperienza della
perdita, della morte come tale. Solo entrando insieme dentro a questo vissuto,
ri-vivendolo come un dramma interiore ineludibile,  si può sperare di avere chance
adeguate per appropriate trasformazioni del proprio mondo di dentro.

In questo
percorso scosceso, impervio, dove Finn deve "Credere all’invisibile",  come recita il titolo dell’ultima bella
raccolta poetica di Cesare Viviani (autore senese, fra l’altro), il desiderio e
al tempo stesso il grave pericolo è quello di sfuggire all’esperienza,
scagliarsi in un labirinto inestricabile di impasse
psico-esistenziali, infinite e senza capo come le scale di Escher che Finn
sembra percorrere per fuggire la morte, o come gli abissi terrifici
dell’infinita biblioteca cimitero che ricordano le carceri fantastiche di
Piranesi.

L’incontro
con la morte,finalmente, segna il capitolo definitivo della vicenda umana di
Finn il fotografo. Al di là di qualche concessione di troppo ad un’ironia che
sembra un po’ fuori luogo, o forse calibrata per non turbare pubblici oramai
non allenati a un coinvolgimento più intenso con l’opera d’arte, questa parte
del film rappresenta il climax della
vicenda esistenziale di Finn e della poetica attuale di Wenders: il dialogo che
si instaura fra i due, così asimmetrici in quanto a essenza e potere, indica la
necessità di affrontare l’esperienza della morte come momento fondante per la
qualità della vita, l’ineludibile passaggio, il necessitato abbraccio per
costruire un adeguato senso del limite, della realtà, della vita in generale.
E, lo ricordiamo ancora, non si tratta a mio modo di vedere dell’incontro con
la morte fisica insé, bensì dell’esperienza della morte come indicatore
semantico di una varietà di condizioni esperienziali, prima fra tutte la morte
psichica e il lutto come separazione da oggetti e vissuti.

Qui il
compasso della mente fa perno, progressivamente, sulla madre che trapassa
nell’al di là della mente di Finn, dove la fotografia si trasforma da modalità
disumanizzante a strumento interiore, intergrato nella personalità, fatto
proprio e perciò umanizzato dentro lui stesso.

Diversamente
dal Settimo Sigillo, la morte chiede di essere abbracciata, e da flagello
universale e terrifico assume la caratteristica di elemento che invita ad un’ Erlebnis completa, piena, proprio perché
non si limita alla tautologia di sé, ma si fa policromia di significati.

Finn
diventa per un attimo la morte, e il brivido angoscioso che ci immaginiamo lo
percorra in questo diventare O (diremmo con gergo Bioniano) si tramuta nell’accettazione
del tra-passare della madre dentro di lui: la madre può essere traghettata
sull’altra sponda, l’addio è compiuto, Finn ricompone le scissioni e le
frammentazaioni di un lutto non vissuto e metabolizzato. Mentre la madre si
perde e cessa di essere gravame disperante e insolubile sulle spalle del
figlio, in realtà acquista il suo giusto posto, il giusto peso, dentro lui
stesso, e la di lei vicenda non integrata ora può essere amalgamata. La porta
di luce fa trapassare la madre nell’al di là, ma al contempo la porta
adeguatamente dentro la dimensione psico-emotiva di Finn.

 

E’
l’accettazione della morte come essere-per
la-morte
che segna un parto vero, al di 
là di ciò che può sembrare una didascalica esposizione della concezione
della morte come passaggio verso un’altra vita ultraterrena, di stampo più
squisitamente cristiano. Per lui, vivere la morte della madre da dentro,
attraversarla richiamadola dagli abissi della frammentazione, della scissione e
della negazione, è essere partorito di nuovo, nel contatto coi propri
sentimenti, col proprio essere e la propria esistenza, dove allora il tempo può
partire o ripartire adeguatamente, e così la relazione, a cominciare da quella
con la sua funzione analitica stessa, Giovanna/Flavia, che può diventare parte
di se stesso e viceversa: "Io conosco te e tu me",e Flavia pronuncia "Tu" ,come
sorpresa,come vedesse lui per la prima volta; una palingenesi reciproca che non
passa attraverso nessuna celebrazione mitologico-onnipotente intrisa, quella
sì, di nichilistica apoteosi della morte stessa come autodostruzione  e rigenerazione onnipotente[5] ,
bensì grazie al ritrovare una madre/terra (terra di Palermo, stavolta) che si
offra come oggetto esterno che si possa perdere davvero, irreparabile, ma che
si possa comunque conservare per sempre come oggetto interiore caldo e vitale,
come Cangi, come la casa/madre, dove il grigio torna colore. Flavia è
l’incontro col tempo e con la morte: anche lei infatti si porta la morte
dentro, anche lei sia del fidanzato che della madre, ma con ben altra caratura
psicologica rispetto al travagliato Finn: in lui la morte è negata, scissa,
scotomizzata attraverso difese appunto primitive. In Flavia c’è già l’aspetto
del dolore, del lutto vero; appare come una sorta di sofferto Virgilio
femminile che aiuta l’altro a navigare fino al ritrovamento di se stesso e
della coppia, come in un’ acconsentita liberazione da gioghi interiori che
lascino spazio a un’ esistenza più matura, relazionalmente più appropriata e
gratificante: oserei dire più umana, dove la carica vitale apra spazi di vita
tramite l’esperienza della Morte, intesa con il ventaglio di significati che
abbiamo finora sottolineato. Flavia è quindi anche l’incontro col tempo e con
la morte: con lei la freccia che, come la lama di Atropo, la Moira che taglia
il filo della vita, dovrebbe segnare la fine del tempo ne diventa
progressivamente il segnale indicatore, la freccia del tempo, disinnescandone
l’animus necandi.

Per
inciso, il titolo suggerisce semantiche allusive: può essere "Palermo che
spara", o "Sparo palermitano",  ma anche
"Palermo che scatta", "Scatto fotografico a Palermo", a sottolineare i punti di
riferimento e di sovrapposizione della trama e del pensiero dell’autore.

Finn può
dormire, ora, non è più uno zombie dell’esistenza; trova il sonno e il
sogno,  la veglia nella vita, comunque
sia, e nella relazione. Possiamo ben dire che c’è la rappresentazione poetica
di una funzione α che crea e ricrea la vita mentale, stabilendone limiti e
confini, il tempo e lo spazio adeguati, non più confusi o denaturati, il ritmo
giusto, la giusta scansione,  il giusto
battito vitale.

Il
percorso di questo viaggio, filmico e psicologico al contempo, anzi
marcatamente segnato da un humus psicoanalitico
innegabile (si veda la scena a Gangi, dove Finn sdraiato in una sorta di
lettino naturale parla a una Flavia che sembra ascoltarlo con posizione e
atteggiamento tale da ricordare una scena di un setting analitico. Addiritura
smaccata è l’allusione quando Finn dice "Ho fatto un sogno", e Flavia lo
invita: "Raccontamelo") è sperabilmente questo: ritrovare la vita vera di
dentro, con sincera democrazia di affetti e sentimenti: nell’analisi, è un
percorso che ogni volta che si realizza lascia stupefatti e affascinati.

Di tutto
questo, di una nuova dimensione raggiunta, fa fede anche il brano musicale che
inaugura i titoli di coda (alla fine di una colonna sonora veramente
affascinante) e che nutre e sostiene come un bordone la conclusione del film:

 

Dio sa quanto adori la vita

Quando il vento dà libero sfogo sulla spiaggia riposa un
altro giorno

Non posso chiedere di più

 

Quando la campana del tempo mi soffia nel cuore

e io mi sono assicurata un giorno migliore

nessuno ha reso tutto questo una guerra

 

E i momenti che mi godo

Un luogo di pace e mistero

Io sarò là in ogni momento

 

Oh, misteri d’amore

Dove non c’è più alcuna guerra

Io sarò sempre là

(Beth
Gibbons – "Mysteries")

 

Percorso
del regista e sogno del regista stesso, percorso di evoluzione e maturazione e
di separazione dalle madri e dai  
padri  (che circolano moltissimo
nel film: Bergman, Antonioni, Fellini, Dreyer, fra gli altri), alcuni scomparsi
proprio nelle more della realizzazione del film, ma già presenti come oggetti
che devono alla fine essere lasciati, ma che informano di sé la poetica del
regista, entrati a far parte del suo tessuto di granulazione mentale, della sua
creatività.

 

Così come
Flavia entra a far parte di Finn e viceversa: quando si svegliano sono
differrenti entrambi, sono nuovi perché trasformati, nutriti di un percorso
profondo e difficile che, nell’incremento della complessità esistenziale che
nasce dal lutto e dalla sua composizione all’interno del soggetto, apre verso
esperienze ignote ma affascinanti, comunque da vivere perché, in ogni modo, in
esse  riappare il colore che ravviva il
grigiore della non esistenza nel rischio della morte mentale. C’è tempo.

 

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[1] Il quadro
viene spesso messo in stretta
relazione con "Odisseo e Calipso" di Böcklin, autore che ha avuto molta
influenza su De Chirico.In tutto il film ci sono inoltre non poche allusioni
anche alla pittura di Dalì.

[2] Il film,
presentato a Cannes, non ha avuto molta fortuna sul piano della critica
cinematografica, che gli ha rimproverato di essere ingenuo, retorico,  didascalico, naϊve, perfino fuori tono
specie nel dialogo con Dennis Hopper/Morte. Pur essendo consapevole della
sussistenza di tali coloriture negative all’interno dell’impianto generale del
film, rimango comunque convinto che tutto questo non sia preminente e che non
infici la qualità generale dell’opera, permettendone un ampio e proficuo
approccio  dal punto di vista
psicoanalitico.

[3] Come è noto,
il deficit di funzione α, con conseguente fallimento di produzione di elementi
α e invece  produzione di elementi β e
di schermo di elementi β, conduce alla progressiva incapacità di pensare, di
simbolizzare, di astrarre, fino a causare lo stato tipico di certe condizioni
psicotiche in cui i pazienti non riescono a stare "né svegli né addormentati",
con frequente incapacità di produrre sogni. Finn pare proprio soggiacere ad una
condizione tanto psichica quanto esistenziale di questo tipo.

[4] Si tratta di
un famoso affresco staccato di grandi dimensioni  contenuto nella Galleria Regionale a Palermo; di autore
sconosciuto, forse transalpino, è datato intorno al 1416circa, è di notevole
spessore artistico. In esso, la Morte, che occupa la parte centrale del dipinto
, irrompe in un giardino e comincia a scoccare frecce che vann oa colpire
personaggi di ogni livello sociale.

[5] E nemmeno attraverso il ritrovamento
di se stessi tramite inquietanti richiami, ancorché mascherati da ideologia
"alternativa" , alla fascinazione del 
"Blut und Boden", "Sangue e suolo", fosse anche altrui, come talvolta è
dato ritrovare in certa cultura tedesca.

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