Cultura e Società

“My Octopus Teacher” di P. Ehrich e J. Reed. Recensione di E. Marchiori

4/01/21
"My Octopus Teacher" di P. Ehrich e J. Reed. Recensione di E. Marchiori

Autore: Elisabetta Marchiori

Titolo: “My Octopus Teacher” (“Il mio amico in fondo al mare”)

Dati sul film: regia di Pippa Ehrich e James Reed, Sud-Africa, 2020, 85’, Netflix

Genere: documentario

 

 

 

 

 

 

Se qualcuno, chiunque sia – familiare, amico, conoscente, collega o paziente – mi parla di un film o di una serie televisiva che non ho visto, di solito accetto l’invito, più o meno diretto, alla loro visione: mi spinge l’interesse verso la persona, oltre che verso il cinema. La pandemia e la conseguente drastica riduzione degli incontri “in presenza” hanno aumentato gli incontri “in remoto” sia tra esseri umani, sia con i protagonisti delle storie dei film e delle serie in streaming, diventati materiale di riflessione e di conversazione ancora più prezioso che in tempi “normali”.

Questa breve introduzione per dire che mai mi sarebbe passato per la mente di vedere “My Octopus Teacher” se, appunto, qualcuno non me lo avesse suggerito: documentari sulla natura ne ho già visti tanti e non sono – lo confesso – il mio genere preferito. Di solito, nella loro straordinaria accuratezza fotografica, mi coinvolgono poco. Invece questo film (otto nomination al Jackson Wild Media Award e premio come miglior lungometraggio all’EarthxFilm Festival) mi ha davvero appassionato con le sue atmosfere magiche, create da un racconto coinvolgente, da immagini e musiche straordinarie. La storia è quella dell’incontro tra un uomo e una creatura selvaggia di inaspettata tenerezza e intelligenza: un esemplare di polpo femmina.

Il film si apre come una fiaba: “Tutto è cominciato un giorno tanto tempo fa …”

Il protagonista è il regista sudafricano Craig Foster, cinquantadue anni, che ha passato gli ultimi dieci anni della sua vita immergendosi in una foresta di alghe nell’Oceano Atlantico, al largo della costa occidentale del Sudafrica, per superare un momento drammatico della propria esistenza. Con semplicità e senza retorica Foster dice: “Lo scopo della mia vita era andato in frantumi”. Dopo aver lavorato tanto, si sentiva esausto, sotto pressione, non riusciva più a prendere in mano una telecamera, i rapporti con la famiglia, in particolare con il figlio, erano compromessi. In preda a una forte depressione ha sentito di “dover cambiare radicalmente” e, per farlo, è tornato ai luoghi della sua infanzia, a quelle acque gelide in cui si era immerso da bambino. Lo ha fatto pensando anche ai boscimani, popolo in estinzione di cacciatori-raccoglitori del Kalahari Centrale, su cui anni prima aveva girato un documentario: aveva ammirato (e forse invidiato) la loro profonda conoscenza della flora e della fauna, che li porta a vivere in completa sintonia con la natura.

È una sorta di auto-terapia quella che Foster ha intrapreso, sfidando le acque gelide e tempestose dell’Oceano senza muta e senza bombole di ossigeno – “come un anfibio” – per non interporre barriere tra il suo corpo e quell’ambiente liquido, in cui si cela “un mondo più strano del più assurdo film di fantascienza”. Sfidando anche i limiti del proprio fisico, a temperature cui adattarsi è impegnativo, in apnea, ha provato il desiderio di riprendere in mano la telecamera, ha scattato foto e catturato immagini straordinarie, cercando il contatto con molte specie marine, tra cui lontre, balene e squali: “Hanno scelto liberamente di avvicinarsi a me, mostrando un atteggiamento di fiducia e vulnerabilità. Ogni incontro, è un momento che toglie il fiato e guarisce, ma nulla potrà raggiungere il legame che avevo raggiunto con il mio amico polpo”.

Il primo incontro con il polpo è descritto come un colpo di fulmine: quello che a prima vista gli è apparso come un ammasso di conchiglie e pietre è, in realtà, il mantello in cui si è avvolto l’animale, che se ne libera per nuotare via, spaventato dalla presenza dell’uomo. Foster, incantato e incuriosito, convinto che “ci fosse qualcosa da imparare da lei” (come ho detto, è un polpo femmina), dal giorno seguente ne segue le tracce sul fondo, districandosi tra le alghe, come un boscimano cercherebbe quelle di un animale nel deserto, tra il bush, finché la trova: “Bang! She’is there!”, che gioia! Poi si comporta come il Piccolo Principe con la volpe: per creare un legame, giorno dopo giorno si avvicina un po’ di più fino a che, dopo quasi un mese, lei ha allungato verso di lui un tentacolo fino a toccare la sua mano.

Da quel momento, per circa un anno, tutta la durata della breve e “preziosa” vita del polpo, Foster l’ha seguito day by day, riuscendo a “entrare nel suo mondo segreto”. E riesce a trasportare lo spettatore in questo stesso mondo, condividendo con lui i moti di stupore, tenerezza, preoccupazione, che quell’essere di insospettata intelligenza induce in lui. Lo vede sfuggire con astuzia ai suoi più pericolosi predatori, gli squali tigre, giocare danzando con le sarpe, mimetizzarsi con infinite sfumature di colori, agghindarsi con conchiglie e rocce, cacciare i crostacei di cui si nutre, respingere le stelle marine che vogliono sottrarglielo, infine la osserva accoppiarsi, deporre le uova e proteggerle, per deperire a poco a poco fino alla loro schiusa. Foster si è trattenuto per rispettare il corso della natura, consapevole di non dover intervenire sul corso di eventi rispetto cui poteva essere solo spettatore.

Il protagonista con coinvolgimento, determinazione e pazienza non solo osserva e filma, ma raccoglie reperti e cerca notizie su quella incredibile creatura, l’Octopus Vulgaris, un mollusco cefalopode, la cui “intelligenza” – vicina a quella di alcuni mammiferi- si trova per la maggior parte nelle  innervazioni del corpo.

Nell’evolversi della relazione con il polpo l’uomo ritrova il contatto con il suo Sè più profondo e con il suo Io, attraverso il contatto fisico primordiale tra pelle e pelle, con quella creatura marina che sembra accarezzarlo, che si attacca alle sue mani, al suo petto, come un cucciolo in cerca di un abbraccio. Possiamo ipotizzare che in quel mollusco dal corpo tenero e molle, vulnerabile e in lotta continua per la sopravvivenza, Foster abbia identificato una parte di sè bisognosa di cure e attenzione, per troppo tempo trascurata. L’immersione nelle acque turbolente dell’Oceano è una facile metafora che rimanda ad un percorso negli abissi dell’inconscio.

Possiamo fare tante ipotesi, ma di fatto questa esperienza è stata per Foster una rinascita, una riapertura verso il mondo degli uomini, dopo essere arrivato a “pensare come un polpo”, da cui ha tratto tanta forza ed energia da riuscire a condividere con il figlio quello che ha imparato dal suo “maestro”: la meravigliosa complessità della natura, “quanto siano vulnerabili le vite di tutti noi su questo pianeta” e quanto sia fondamentale la gentilezza, e l’“avere tatto” nel relazionarsi con tutti gli esseri viventi.

Sono questi elementi che più coinvolgono e commuovono lo spettatore di oggi, pieno di nostalgia di un contatto fisico, di un tocco, di un abbraccio, proibiti. La pandemia ci ha costretti a rinunciare proprio al tatto, quello tra i nostri sensi che è fondamentale sin dalle origini per lo sviluppo della relazione con l’altro. Ci ha costretti a coprire la pelle e le mucose, a sterilizzarci e a distanziarci fisicamente e le giovani generazioni, i bambini e gli adolescenti, ne stanno subendo le più pesanti conseguenze.

Gli esseri umani hanno trattato il mondo senza rispetto, senza limiti, senza tatto, con la convinzione di essere la “specie superiore” a tutte, per trovarsi ai limiti della catastrofe ecologica, in balia di un virus che ci sbatte in faccia da mesi la nostra fragilità e ci fa confrontare con la morte e la mancanza di speranza, sempre più bisognosi di non perdere il contatto con noi stessi, gli altri e il mondo che ci circonda.

Abbiamo tutti da imparare da questa sorta di storia d’amore tra l’Octopus Teacher e il suo allievo: non fossimo così ciechi e presuntuosi.

 

Gennaio 2021

 

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