Autore: Elisabetta Marchiori
Titolo: Notturno
Dati sul film: regia di Gianfranco Rosi, Italia, Germania, Francia, 2020, 100’
Genere: documentario
“Come in un Notturno di Chopin, anche qui l’oscurità è un pretesto, un’occasione per far “risuonare ciò che vive”, ha detto Gianfranco Rosi del suo film in concorso a Venezia, girato nel corso di tre anni di esplorazione lungo le zone di confine tra il Libano, la Siria, l’Iraq e il Kurdistan. Il regista ci porta alle soglie delle zone di guerra, alle porte dei conflitti, seguendo il bordo che separa l’umanità dall’orrore, in una sorta di terra desolata della sopravvivenza, alla ricerca di squarci di vita, di bagliori di sopravvivenza.
Le immagini che scorrono sullo schermo sono di estrema potenza, eppure non travolgono lo spettatore: il lavoro di elaborazione di Rosi è tanto profondo e accurato da renderle così penetranti da essere assorbite e interiorizzate, da renderle indelebili. Ha curato personalmente la potente fotografia, lavorando per cinque mesi con Jacopo Quadri per un montaggio che sembra seguire una narrazione – anche simbolica – di passaggi: frontiere, corridoi, porte, finestre. Come in tutta la sua opera, propone la questione dell’etica e della politica delle immagini, di cui si può discutere a lungo.
La Guerra, con i suoi soprusi, le violenze, le torture, i massacri, la follia, Rosi non la mostra direttamente. La cerca dentro le persone: i soldati immobili che fissano il deserto, i prigionieri vestiti di rosso, le donne a lutto che piangono la morte dei figli, i bambini che disegnano l’orrore che hanno negli occhi, i pazienti di un ospedale psichiatrico che mettono in scena le storie dei loro paesi rasi al suolo, un ragazzino che si sveglia all’alba per accompagnare a caccia uomini con i fucili, guadagnando quel poco che basta a sfamare i suoi tanti fratelli.
Frammenti di quelle immagini di Guerra che ci inondano quotidianamente, tanto da diventare insignificanti, Rosi le filma da schermi, quelli dei cellulari, dei computer, di un piccolo cinema. Le filma insieme alle persone che le stanno guardando, così lo spettatore è accanto a loro, le può vedere con i loro sguardi, assumere la loro prospettiva, e così, queste “immagini di immagini”, lontane, sfocate, rimangono.
E ancor più incancellabili, più realistici di un reportage fotografico, sono i disegni che i bambini di un orfanotrofio, sopravvissuti alla violenza dell’ISIS, attaccano a una parete e raccontano, con parole semplici, spontanee e crude.
Insieme alle loro voci, quelle delle donne straziate – litanie dolorose – quella coraggiosa di una ragazza che parla alla madre attraverso messaggi vocali; pochi suoni, quelli della natura e delle esplosioni lontane; tanto silenzio; qua e là frammenti di conversazioni quotidiane: “pioverà”, “ho mal di schiena”, “come ti chiami?”. Anche in guerra Rosi, pioniere di quella generazione di registi che in Italia che si colloca fuori dai percorsi tradizionali, ibrida realtà e finzione, muovendosi tra documentario e drammaturgia, persevera, come nei suoi film precedenti (“Il sacro GRA”, Leone d’Oro nel 2013 e “Fuocoammare”, recensiti su questo sito), nel ricercare l’umanità, la vita nell’oscurità, nelle zone d’ombra, mai in pieno sole, fuori dalla luce accecante dei riflettori. Lungo i suoi passaggi tra un ambiente e un altro, tra una casa e una caserma, tra una prigione e un manicomio, tra il deserto e le paludi, tra i campi e le trincee, incontra uomini, donne, bambini, ne conquista la fiducia, chiede che si mostrino e si raccontino, crea quella che ha chiamato “una psico-geografia”, perché siano le loro storie intrecciate a fare il film.
Settembre 2020