di François Ozon, Francia, 2013
“Lei entrò per prima, io la seguii… Lì per lì, mentre
cercavo di avanzare con passo incerto nel buio
totale, non accese la luce” (Szabò, 1987, 152)
Il film
Germain è professore di letteratura presso il Liceo di una cittadina francese. È un docente competente, appassionato, scrittore mancato perché carente di talento, che incontriamo in una fase della vita in cui è deluso dal riscontro sterile che trova nei suoi allievi. E’ abituato a commentare ironicamente, con sua moglie Jeanne, i temi degli studenti finché non viene colpito dal tema di un allievo, Claude, introverso, che siede all’ultimo banco. Affascinato dalla sua scrittura, Germain lo sostiene a continuare a scrivere. Claude si insinua abilmente in seno alla famiglia del compagno Rapha, dove conosce il padre e la enigmatica e sensuale madre Esther. Settimanalmente, Claude consegna a Germain le puntate del suo percorso nella casa di Rapha, ed ogni volta il testo finisce con la promessa di un seguito: “continua”.
La visione
Il film mi ha incuriosito sin dall’inizio; forse Lucchini che tornava da altri film che mi avevano appassionato, ma forse una specie di promessa che è sin dal principio: il senso di poter occupare un luogo vuoto che è annunciata nel cortile vuoto della scuola dove arriva Claude e poi, in una vorticosa accelerazione delle sequenze si riempie di tanti studenti nell’attesa di entrare. Per un’analista è facile entrare nel film con le sue tensioni e i suoi pazienti. Ho seguito il film immaginando tutti i personaggi come una serie di percorsi possibili tra un analista e un paziente, “versioni della persona stessa… un’organizzazione plurale e molteplice del Sé” (Mitchell, 1991, 10 e 12), perché, quando sono con un paziente, so che nella stanza di analisi non ci sono semplicemente due persone, ma infiniti “fantasmi che ascoltano il paziente e si animano ascoltandolo” (Mitchell, 1993, 134).
I primi fantasmi li tocca Germain quando legge il tema di Claude che, come gli altri alunni della classe avrebbe dovuto scrivere cose ovvie: “mai vista una cosa del genere – commenta Germain alla moglie. Senti qui: sabato ho mangiato una pizza e ho guardato la tele. Domenica non ho fatto niente! Non avevo chiesto un testo in endecasillabi, ma di raccontare il week-end!”. Invece accade che poi il tema si anima improvvisamente: “sono stato a casa del mio amico Rapha; entrando in una stanza dove era la madre ho sentito l’odore particolare, tipico, delle donne borghesi”. Io so che si tratta sempre di Claude, sia quando il tema è scarno, che quando si anima; si tratta sempre dello stesso paziente. Accade solo che il paziente ci sorprende e sappiamo che, quando accade la sorpresa, nuove configurazioni del Sé si sono realizzate proprio attraverso lo scarto fra rappresentazioni differenti e contrastanti nel dialogo fra paziente ed analista: “alcune volte…la sorpresa dell’analista si basa su un’aspettativa consapevole, un punto fisso che si dimostra errato o incompleto” (Smith, 1995, 68). Germain scambia con Jeanne uno sguardo attonito, perché quell’evento non era atteso e da questo momento non solo Claude è entrato in una casa affascinante, ma anche Germain e Jeanne si muovono alla conoscenza di Claude che, come i pazienti in analisi, chiede il loro aiuto, ma al tempo stesso li guida all’esplorazione di una casa che riguarda anche loro: “scusi, prof., perché questa storia non la scrive lei?”; è una domanda che spesso i pazienti ci fanno, perché in qualche modo sentono di aver diritto ad una risposta che è alla base della nostra vita: “perché io non ne sono capace. Tu hai talento!”
Lo stesso giorno leggo su Repubblica di un testo psicoanalitico che riconosce l’impoverimento del discorso dei nostri pazienti. E’ vero: è il segno dei mutamenti culturali dei tempi. Ma mi chiedo in che senso per un analista sia una cosa nuova. Ogni paziente porta un suo racconto, con il suo linguaggio, dove sono stati persi (o non ci sono mai stati) i toni vitali e il percorso analitico significa proprio che quel discorso potrà prendere i toni caldi della passione soprattutto attraverso la curiosità e l’interesse (ma anche la noia e l’irritazione: sappiamo che non cambia molto…) dell’analista. I pazienti fanno sempre il loro mestiere, sono gli analisti che devono inventare soluzioni e “rivestire il materiale del paziente servendosi della propria immaginazione” (Winnicott, 1959, 174). L’importante è che ci sia un particolare tipo di incontro che permetta di rendere appassionante un linguaggio o un testo scarno di cui settimanalmente aspetti la “continua” perché “i pensieri non nascono nella mente, ma nella pulsante zona di cesura … che è lo spazio dell’incontro… uno spazio pre-individuale della mente che può essere messa in comune” (Gaburri, Ambrosiano, 2003, 47).
Infatti, ogni analisi ha inizio con l’indicazione al paziente di dire “tutto quello che gli viene in mente”, anche le cose che sente più stupide e sgradevoli…”tutto” e questo metodo, nonostante ciò che si pensa, non è stato inventato dagli analisti, ma il film ci dice che è un dispositivo che permette alla gente di incontrarsi e soprattutto di appassionarsi al percorso di poter essere ospitati nella mente di un altro il cui luogo è irrinunciabile. Il solo modo di entrare nei pensieri che non sono ancora nostri, ma che ci attendono, è di procedere senza senso, perché il senso è già una direzione che abbiamo percorso e che ci impedisce di poterci perdere in altre direzioni. “L’analista non si interessa alla certezza che risiede nelle cose del passato, ma all’elemento nuovo che incide, sorprende e, come una poesia che dà un altro senso alle parole e al detto, non smette di stupirci” (Venneman, 1993, 68).
Parallelamente alla possibilità di perdersi c’è il filo rosso della tensione ad entrare nelle storie nuove (Bion, chiama O questa disposizione) e la garanzia della curiosità che ci conduce in luoghi dove sentire “l’odore, tipico delle donne borghesi”. Il film suggerisce che si può fare, se qualcuno ascolta e vive le tue sensazioni e condivide con te la curiosità e il rischio:
“Tu parli di un tuo compagno di classe e della sua famiglia. Possono prenderla male!…”; “perché? Nessun altro ha letto il tema!”; “Non ancora; se lo facessi leggere a qualcun altro… “; “perché l’ha letto qualcun altro?” “Non ancora, ma potrei farlo leggere… al preside, per sapere cosa ne pensa. Potrebbe prenderla male!” ; “non l’ho scritto per il preside, l’ho scritto per lei!”
Il problema non è il testo, come sottolinea il professore al suo alunno: “mi preoccupa!… La punteggiatura è buona… Qui si parla del contenuto!”. In realtà, un testo sospeso è ciò che incuriosisce il professore. Succede all’inizio nella cesura netta che il professore sente fra il testo piatto degli altri alunni e il testo di Claude. Poi, verso la fine del film, ancora una cesura che emerge dalla sospensione del senso di un’immagine in cui è immersa Esther: “a piedi nudi la pioggia non balla”. Si tratta di luoghi che ti chiamano perché l’inestinguibile sensualità che organizza la mente ti promette vita.
Poi “incominciai ad entrare in un mondo nel quale non ero mai stato” (Hrabal, 1965, 87). E Claude comincia a muoversi nella casa e toccare gli oggetti più intimi: una forma di compulsione potente. Le volte in cui sei su un treno, magari di notte, e scorgi di sfuggita le stanze delle case illuminate; spesso la TV accesa, un lampadario; immagini una cena e confronti la tua estrema instabilità nel treno rispetto al suo perfetto opposto che è la stanza illuminata e organizzata intorno alla TV. Quando sei dentro, il percorso è fra la continua tensione a procedere e la necessità di fermarsi. Il film propone questa tensione attraverso i due protagonisti che, come accade nei processi di cura, continuamente si scambiano i ruoli:
“La cosa più difficile è avvicinarsi il più possibile ai personaggi … Perché sei passato al presente?”; “è un modo di rimanere… nella casa!”; Ti sei spinto troppo oltre!”; “è lei che mi ha spinto la dentro!”; “ora ti devi fermare!”
Ovvio che ora non ci si possa fermare! Ma il motivo per cui non ci si può fermare è perché la passione ha toccato Germain ed è lui che aspetta, ogni volta, la “continua” della storia. Alcuni analisti hanno descritto questo come vera e propria forma di “amore” dell’analista verso il proprio paziente e credo sia vero. Ma non si tratta di qualcosa di negativo o di interferente verso il processo analitico, ma dell’essenza: “è fuor di dubbio che Dora volesse essere amata. Ma di che amore si tratta? Dell’amore della nursery, dell’amore dei genitori responsivi e solidali… o dell’amore al cospetto del talamo coniugale?” (Borgogno, 1999, 60). E’ il diritto che ciascuno di noi ha nel sentire di essere desiderato, quindi, atteso. E’ un diritto per il quale siamo entrati nel mondo vuoto, ma dove c’era già un posto potenziale per noi sin dalle origini Un’analista lo ha chiamato “contratto narcisistico primario” (Aulagnier, 1975), ovvero una forma di “sacra annunciazione”. L’amore dell’analista è quella forma di attesa che senti verso il paziente che sta per arrivare, o che è appena andato via o il poterlo ritrovare nei tuoi pensieri della giornata o dei film che vedi (il reciproco è una forma di insofferenza o noia verso precisi pazienti: la cultura comune pensa che l’insofferenza e la noia sia l’opposto del desiderio caldo, ma gli analisti sanno che sono la stessa cosa perché dietro l’irritazione e la noia sanno che devono cercare comunque il diritto del paziente di essere desiderato perché quel diritto porta, seduta dopo seduta, il paziente da noi). Per questo Germain ruberà il compito di matematica: perché lui desidera le storie e la presenza di Claude; per questo andrà a recuperare il foglio appallottolato che Claude ha buttato nel cestino che custodiva una storia promessa, ma poi negata, Per questo ogni volta che il testo propone “continua” Germain alza gli occhi dal foglio, pensoso: “ti sta manipolando. Volevi insegnargli la letteratura, ma è lui che ti da lezioni!” (Jeanne).
Spesso nei film (nelle sedute) ci si chiede se, e quanto, il racconto sia vero: “li ha guardati fare l’amore..!” ; “è una storia di fantasia, Jeanne!”. Sicuramente, nel film che sto vedendo ora, non si capisce quanto Esther aderisca alle fantasie di Claude. Per fortuna il film non ce lo dice e noi continuiamo a chiederlo agli amici con cui abbiamo appena visto il film. In realtà, lo vogliamo sapere solo perché si sono appena riaccese le luci e, finito il buio, dobbiamo riconsegnare alla luce chiara – che le sollecita – le nostre sensazioni. Sono contento che il film non me lo sveli e che Esther continui a mantenere anche per me una posizione altamente seduttiva ed enigmatica, perché posso continuare a chiudere gli occhi e sapere che quello è un luogo dove l’eccitamento prenderà le forme infinite delle storie (Big Fish, 2002) sia nella vita che nelle cure. Le immagini sono il luogo dove tutte quelle storie si sono realizzate insieme; raccontarle significa perderne molte. Per fortuna, con i pazienti, non dobbiamo porci mai questa domanda, perché “nella casa” tutte le storie sono vere.
Poi c’è Jeanne che si appassiona anche lei, e la storia diviene una storia larga, che appartiene anche ad altri e gli altri attraverso i loro commenti modificheranno la storia. Non sono i commenti che modificano la storia, ma i loro desideri, i loro bisogni – a loro volta – di esserci dentro anche loro. E’ il sottile crinale che tocca gli analisti quando intervengono nelle storie dei loro pazienti: inevitabilmente introducono e tradiscono i loro desideri e i pazienti, questa volta fanno il loro gioco: “non scrivo più: ho smesso!…”
Alla fine s’illuminano tutte le finestre del palazzo che è di fronte alla panchina dove sono seduti i due: “guardi dentro quelle finestre… quante vite e quante storie lì dentro”. Tanti piccoli mondi (chissà perché, le ho contate, 12…, un po’ so perché…) che ospitano mille scenari e mille storie che si muovono parallele, ma sono tutte comprese nel medesimo palazzo. Forse è questo ciò che gli analisti chiamano “plurime configurazioni del Sé”, continuamente sostenute dal fisiologico processo dissociativo della mente che è la “capacità sempre maggiore di contenere parti opposte del Sé in un singolo stato di consapevolezza” (Bromberg, 2011, 159). Claude e Germain, insieme sulla panchina, possono tessere un dialogo sulle immagini delle due donne al balcone: “sono due sorelle che litigano per l’eredità…”; “No, sono due lesbiche che dopo 20 anni litigano perché lei l’ha tradita con la dermatologa… lei le sta dicendo: te l’ho presentata proprio io la dermatologa…”. Per questo ora Claude riconosce a Germain: “lei può aprirmi le porte dei racconti!”. Poi ti siedi per mesi sulla panchina e, come nell’analisi, ci ritorni ogni giorno, alla stessa ora, per un tempo che sembra lungo e inspiegabile solo se visto da fuori e osservi quella casa immaginando come potrà essere lì dentro, finché qualcosa non ti permette di trovarti dentro: “torno nella casa del mio amico e lo aiuto a studiare…”.
Le finestre che si illuminano davanti a Claude e Germain, seduti sulla panchina del parco, mi riportano alle prime immagini del film in cui Claude occupa da solo il cortile della scuola e poi le infinite fotografie che si sovrappongono veloci nell’inquadratura come foto-tessera in cui ognuno presenta se stesso senza nessi con le altre tessere. Il nesso è il veloce turbinio in cui ognuna delle foto si immerge. All’inizio ho pensato a qualcosa di gradevole e ad una felice intuizione del regista; alla fine, mentre ero anch’io di fronte alle finestre che si illuminavano e porgevano l’enigma intrigante delle loro storie, vedo le foto come infinite tessere, separate fra loro, che attendono storie che possano legarle. (Continua).
“mi resi conto… che quella roba che stavo vedendo lì
erano anche altri modi di pensare”
(Hrabal, 1965, 59)
Riferimenti bibliografici
Aulagnier P. (1975). La violence de l’interpretation. Du pictogramme à l’énoncé, P.U.F., Paris, (tr. it. La violenza dell’interpretazione. Dal pittogramma all’enunciato, Borla, Roma, 1994.
Borgogno F. (1999). Psicoanalisi come percorso. Bollati-Boringhieri, Torino.
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Hrabal B. (1965). Una solitudine troppo rumorosa, ed. it. Einaudi, Torino, 1968.
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Winnicott D. W. (1959). Classificazione: esiste un contributo psicoanalitico alla classificazione psichiatrica?, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1970.