di Philippe Falardeau, Canada, 2011, 94 min.
commento di Giuseppe Riefolo
Il bruco e la farfalla
“ho sognato che erano adulti, ma parlavano
ancora come bambini, e la colpa era mia
perché avevo dimenticato di mettere un po’
di colore nella loro vita” (Bachir Lazhar)
Il film
Bachir Lazhar, immigrato a Montréal dall’Algeria, si presenta un giorno per il posto di sostituto insegnante in una classe sconvolta dalla morte violenta della maestra che si è suicidata proprio nella classe. Anche nel passato di Bachir c’è un lutto terribile, con il quale, da solo, non riesce a fare i conti. Malgrado il divario culturale che lo separa dai suoi alunni, Bachir impara ad amarli e a farsi amare e l’anno scolastico diventa un percorso di cura reciproco dove il dolore può essere sentito e le separazioni diventano finalmente possibili.
La visione
Ci sono due momenti che mi hanno toccato del film e non so ancora perché. Quando Lazhar, solo nell’aula, si fa prendere dalla musica che viene dalla finestra e piano piano comincia a ballare come un arabo e quella musica è araba, ma non può permettersi di essere visto da Claire. L’altro, ovviamente, è l’abbraccio finale fra Lazhar e Alice.
1.“Quella notte un terribile incendio devastò la foresta e la crisalide non divenne mai farfalla. All’alba il fuoco si spense. L’albero era ancora in piedi, vivo, ma il suo cuore era distrutto dalle fiamme, consumato dal lutto”.
C’è un evento che blocca la vita di quella classe; gli analisti direbbero che blocca il fisiologico processo dissociativo della mente (Bromberg, 1998; 2006; 2011; Riefolo, 2011; 2012; Boccara, Faccenda, Gaddini, Riefolo, 2012), quella dimensione che permetterebbe agli alunni di muoversi liberamente nella classe, di scontrarsi, di incontrare i professori, di apprendere. Ma se uno di questi elementi prende per sé tutti i possibili significati potenziali di quello che può succedere, tutto si blocca e a nulla serve dare un nuovo colore celeste pastello alle pareti della classe: è il movimento dentro la classe che è sequestrato da una configurazione potente e violenta perché la professoressa Martine si è suicidata proprio lì: “Se noi siamo violenti ci mettono in castigo, ma noi non possiamo mettere Martine in castigo perché lei è morta!”. La violenza è quando qualcosa impedisce il libero oscillare del Sé nei suoi stati multipli e una configurazione dell’esperienza occupa tutte le altre. Difficile muoversi in un campo dove il processo dissociativo è bloccato: però vediamo Bachir continuamente goffo, e la goffaggine, l’incertezza e l’errore sono il giusto tono delle operazioni creative in contesti dove le soluzioni dissociative sono cristallizzate patologicamente. Bachir muove il processo dissociativo perché sa farsi usare; perché la classe sente che lui è smarrito e perso, mentre Martine era perfetta e per questo nessuno sa collocare in Martine il suo dolore incontenibile e poi consegnato violentemente alla classe.
Il film mi è sembrato il racconto della fatica, impossibile, di dare vita al blocco della classe sequestrata da un trauma. Il film fa pensare che la cifra di questo processo non è quantitativa, ma deve accadere che qualcuno sappia usare sapientemente la casualità e quel processo leggero che fa incontrare le persone (le situazioni) senza che loro l’abbiano voluto, ma solo perché ne avevano bisogno, per la loro vita. Nelle cure, come Lazhar, l’analista deve attingere prima che alla sua tecnica, soprattutto a quello che proprio attraverso la tecnica riesce a cogliere di quanto non conosce ancora di sé in contatto con un altro. Per questo dovrà sorprendersi, incuriosirsi e, soprattutto, divertirsi (nel senso etimologico di “divergere” dal testo manifesto …..): “si adotti, allora, il modello che si vuole a patto che esso tolleri dosi elevate di imprevedibilità e di scarto” (Morpurgo, 1986).
Infatti, da un lato c’è la te[cnica: “affronteremo questo momento tutti insieme – avverte la preside – professori, alunni, genitori e la psicologa che ci aiuterà a parlare di quello che è accaduto giovedì scorso!”. La sequenza e l’esito di questo approccio sono ovvi. Infatti: “scusi – interviene un genitore – ci sarà solo una psicologa per tutta la classe?”. La preside è dentro il blocco, come pure la psicologa e, per questo, vogliono solo fuggire: “devono percepire che il mondo non si è fermato!”; “Sì, ma il sostituto quando arriva?”. Tutti aspettano il sostituto, per questo, quando arriva, nessuno lo riconosce (“è un giornalista?.. lei è il padre di…?”). Intanto nella classe c’è movimento fra i ragazzi: “i miei stanno impazzendo”; “perché tu no?”. Il “sostituto”, Lazhar, non sa cosa è successo e lo intuisce dal gruppo: “cosa stai guardando?”; “Martine si è impiccata lassù!” Soprattutto è il primo a cercare soluzioni concrete ed agite alla propria paura. Gli analisti chiamano enactment questa situazione, ovvero quei comportamenti che si sintonizzano con la situazione di sofferenza ed è attraverso questo che l’analista se ne appropria profondamente: “…la soluzione dissociativa del terapeuta verrà rinforzata, e lui, solitamente, non ‘se ne renderà conto’ se non quando la situazione degenererà al punto che sarà costretto a farne esperienza attraverso l’enactment, che lo voglia o no (…). L’enactment continuerà o si aggraverà fino a che l’analista avrà esaurito i modi di ‘comprenderlo’ o le tecniche per fronteggiarlo” (Brombderg, 2006, 94 e 194). Infatti Bachir, goffo, chiede alla preside che si trasferisca la classe in un’altra aula. In un’altra occasione dà uno scappellotto a Simone e non si rende conto – come gli segnala un’alunna – che deve chiedere scusa…, che “non siamo in Arabia Saudita!”, ovvero che il proprio quadro di riferimento (Bleger, 1966) è diverso da quello della classe. Nelle cure i passaggi segnati dagli enactment sono cruciali perché permettono l’avvio dei processi e la paralisi si rompe costringendo l’analista alla sorpresa : “il mondo fantasmatico [di Lazhar], in cui era depositata la sua istituzione familiare più primitiva, fatta di indifferenziazione e attualizzante un bisogno di ripetizione perfetto, si trovava a confrontarsi con il quadro [della classe]” (Ferruta, Galli, 1992, 587). La frizione, persino lo scontro, fra i reciproci quadri costringe a negoziare nuovi setting capaci di contenere i differenti quadri che l’interazione fa emergere: “come mai i vostri banchi sono disposti a mezza luna?” (silenzio); “l’ha deciso Martine per incoraggiare lo spirito di gruppo!”; “Bene! da ora posizioneremo i banchi in file dritte”. Al contrario di ciò che la gente immagina, il setting è un dispositivo estremamente dinamico che coglie i movimenti continui dei processi in atto. In questo, Lazhar è la capacità di un analista di essere continuamente presente e leggero. E se tutto comincia a muoversi fra quelle piccole e infinite configurazioni di vita della classe, forse, anche grazie a Lazhar che assiste muto, e che mette la sua goffaggine (Sé) a disposizione della classe, Alice potrà parlare di Martine che “si è impiccata col suo foulard e forse voleva trasmettere un messaggio violento”. Gli analisti sanno che la soluzione non è “parlare”, ma al contrario stare zitti finché non diventa possibile parlarne.
2.“Domani sarà una bella farfalla libera dal bozzolo” pensa l’albero che aveva gioito ogni giorno nel vederla crescere,, ma nel suo cuore il desiderio di tenerla ancora un po’ con sé era forte”.
Bachir non sa perché, ma parla alla classe della crisalide “un insetto a metà fra il bruco e la farfalla. Il suo alloggio è un bozzolo fragile da cui al momento opportuno spiegherà le ali…. Come voi!”. Il processo dissociativo si muove e Simone associa ora al discorso di Bachir una configurazione che qualche giorno prima – nel dover accettare di fare un dettato da Balzac – gli era risultata ostile: “questo parla come Balzac!” aveva esclamato. Nel film ritorna sempre questa immagine della potenzialità frustrata: Alice, Simon, la storia di Bachir, Claire e il suo interesse per Bachir,… Per questo ho visto muoversi sullo schermo una serie di miei pazienti ed io stesso con loro. La fatica del percorso, alla fine, forse arriva solo a restituire a Bachir la sua danza araba e poi l’abbraccio con Alice. Forse quelle due scene mi hanno colpito perché mi rassicurano: ti restituiscono qualcosa di tuo quando abiti la terra di un altro.
Poi Lazhar apre la scatola dove trova il libro che Pierre ha regalato a Martine quando l’amava. Ma Pierre, dopo Martine, non ha più interesse per quegli oggetti, mentre ora quel libro arriva come un dono per Lazhar. Mi ha emozionato pensare che quel libro, in quella scatola di cose senza vita, da tanto tempo era in attesa del bisogno vivo e della curiosità di Lazhar che, come voleva Pierre, lo userà, ora, per leggere le fiabe di Lafontaine alla classe. Quel libro, senza quegli eventi, avrebbe potuto perdersi nell’infinito come certamente accade per mille altre cose di cui non ci accorgeremo mai: “da ogni cosa, considerata con simpatetica attenzione, possono allora diramarsi differenti percorsi di curiosità (nel senso nobile indicato dall’etimologia: da cura, sollecitudine, volontà di sapere)” (Bodei, 2009, 117).
Bachir non può insegnare, ma può curare e la cura significa che configurazioni del Sé bloccate si trovano e si accoppiano con altre configurazioni bloccate che appartengono al “campo relazionale” (Boston Change Process Study Group, 2010).). Il dettato di Balzac è stato un espediente goffo che ha solo segnalato alla classe la sua impotenza. Poi Alice gli regala “dei libri meglio di Balzac” e poi lui troverà nel pacco che gli arriva dall’Algeria (non c’è marmellata dentro, ma “le cose di mia moglie!” come dirà all’impiegato delle poste) piccoli timbri che raffigurano cammelli e li userà per segnare i temi dei ragazzi. A questo punto, Bachir è entrato nella classe e, quello che più conta, è che vi è entrato nonostante lui: “prof, non la fa la foto con noi?… dite tutti cheese… Possiamo dire Bachir?… Baaachiiir!”
Tutto sommato Lazhar , come insegnante è abbastanza penoso, ma ha un suo dolore acuto e, soprattutto, quel dolore è vivo e chiede cura e troverà asilo in un dolore, non di maggiore entità, ma di differente violenza, che è quello della classe. In fondo, in qualche modo, ogni storia ha sempre un piccolo posto per un messia atteso per una soluzione indolore. Lazhar è nel posto del trauma di quei ragazzi: potrebbe sostenerli nell’evitamento (“non è il caso di parlarne; quella lettera è violenta” gli dice la preside), ma Lazhar, per quanto cerchi di evitarlo è disponibile a farsi coinvolgere da quella classe ferita. Si presenta: “Bachir significa portatore di buone notizie, Lazhar significa fortuna”. A quei ragazzi porta la bellezza di Algeri, la sua città; il suo sorriso impacciato di chi non sa se può permetterselo e soprattutto porta le favole di Lafontaine che Pierre aveva regalato a Martine perché lei le leggesse “una a settimana alla classe”. Occuparsi del processo dissociativo significa non dover introdurre cose, ma permettere che le cose raccontino le loro storie: “se vinciamo la tendenza a metterci sempre al centro di noi stessi, senza ‘sporgerci’ verso ciò che può rinnovarci, i racconti delle cose, con il loro carico di simboli e di stratificazioni, sono talmente vasti e ricchi che è facile perdersi” (Bodei, 2009, 118). Bachir è un bravo terapeuta perché è teneramente ignorante e sa cogliere le parti vive di storie (quella di Martine, la sua, quella di Simone, di Alice, di Claire,…) che il dolore vorrebbe negare (negare significa che sono storie che non si riesce mai a chiudere). Forse per questo Alice può finalmente rintracciare la violenza (quella del suicidio di Martine?; quella della propria famiglia?…) dentro la classe: “il punto non è se non siamo d’accordo, perché anche se il lupo dice cose insensate, alla fine ha sempre ragione sull’agnello!”. Victoire, l’alunno cicciottello, sente che quella violenza è lì, nella classe e, ancora una volta, la violenza viene dal professore. Ma questa volta Lazhar è vivo è può essere attaccato: “come lei, prof!… è lei il più forte perciò prende le decisioni anche se sono ingiuste”. Anche questa volta Lazhar potrebbe fuggire, ma ha buoni motivi per accogliere ed occuparsi di quella violenza che anche lui conosce (Bollas, 1987) e inventa una soluzione – ai limiti dell’enactment – che rende avvicinabile quella violenza: “scriverete una fiaba che ha come tema l’ingiustizia… anch’io scriverò una fiaba e voi la correggerete”.
3.“Da quella notte, quando un uccellino si posa sui suoi rami, l’albero gli racconta della crisalide che non fu mai farfalla e la immagina con le ali spiegate, fluttuare nell’azzurro del cielo senza nuvole, ebbra di zucchero e libertà, testimone silenziosa e lieve delle nostre storie d’amore”.
Ho pensato che il film è bello perché tutto il dolore passa attraverso Bachir, che non è un eroe, ma un artigiano (artista?) umile. Il film ti prende perché Bachir ci riguarda sia nella nostra vita che come analisti perché si tratta della felice convinzione che la vita (che io chiamo “processo dissociativo”) esiste sempre e dappertutto. Come per i film che ci conciliano con noi stessi, è Bachir che vince, ma non perché è il più forte, ma perché lo vedi sempre camminare ondeggiando con quelle sue scarpe dalle suole grosse e la cartellina di cuoio, sottile, da prima elementare, per le strade coperte di neve e sai che se scivolasse, questa volta cadere sarebbe un gioco. Ondeggiare, forse, è il modo più sicuro di procedere perché rispetta e corrisponde alle oscillazioni del percorso.
Chissà perché mi occupo di Bachir e non piuttosto di Simone: è lui il vero protagonista. Ma di Simone non si può parlare perché Simone è dove il Processo Dissociativo si è bloccato: “la verità traumatica… abita il Sé come uno spettro… la capacità di immaginazione è distorta…” (Bromberg, 2006, 181 e 187). Mentre Bachir è il dispositivo che incontra Simone e, alla fine, ne accoglie (ne permette) il pianto: “non è colpa mia se Martine si è uccisa… Sapeva che il latte lo portavo io il giovedì… lo sapeva che l’avrei trovata io!”. A questo punto mi è stato chiaro perché alcuni pazienti non accettano le cure o magari rifiutano, in particolare, di entrare in un gruppo terapeutico. Temono che appartenere alla classe sia il motivo della riproposizione del dolore! Invece sappiamo che la classe per Simone è un luogo vivo capace di accogliere il suo dolore. La differenza è che il dolore possa sciogliersi diventando un processo, altrimenti i pazienti hanno ragione a temere le cure. Infatti, a Bachir viene dato l’asilo politico; Alice si riavvicinerà a Simone e si metterà al suo fianco poggiandosi sulla parete della scuola, senza parole. Nella fiaba che Bachir leggerà alla classe, mentre sa che quella è la sua ultima lezione, parla del suo dolore: “una crisalide che non diviene farfalla per via di un terribile incendio”.
Penso che Lazhar che accenna piccoli movimenti di danza è proprio quello che accade quando il campo delle cure (o la mente di ciascuno di noi…) riprende a muoversi: perché solo in quella dimensione si è pronti a farsi spingere e, allora, il movimento viene leggero. Il movimento si riattiva perché qualcuno ci permette, o persino ci presta, piccole configurazioni vive che cogliamo come Bachir la musica che lo riporta ad Algeri. Poi nell’abbraccio tra Bachir e Alice c’è la stessa sostanza e la stessa intensità di un oggetto antico. Le due scene sono identiche.
Spesso la musica dei titoli di coda ti serve per stare ancora un po’ nella sala e rientrare, piano, fuori dal film. Qualche volta è di più. Sullo schermo nero vedo scorrere i titoli e mi scopro a cercare particolarmente i nomi reali dei piccoli protagonisti: Simone, Alice,.. forse la finzione del film mi toglie qualcosa perché io so che le emozioni di quella storia appartengono alla mia vita: la morte di Martine; l’avvento deciso, ma leggero di Lazhar; essere Simone; essere Alice… Il valzer dei titoli di coda somiglia incredibilmente al film e faccio fatica a togliermelo dalla testa.
Gennaio 2013