Recensione di Rossella Valdré
Regia di Kennett Lonegan – USA, 2016, 138’
– Non vivere è spaventoso-
(V.Hugo)
Con sei candidature all’Oscar (e due statuette – Casey Affleck, miglior attore protagonista, e miglior sceneggiatura originale), il regista newyorkese Kennett Lonegan approda a questo suo terzo film (dopo “Conta su di me” del 2000 e “Margaret” del 2011) mantenendo quel timbro di tenerezza dei precedenti lavori ma facendosi certamente più duro, maturo, direi emotivamente spesso. La caratteristica stilistica che fa di “Manchester on the Sea” un quasi-capolavoro è, infatti, una particolare densità emotiva che percorre la vicenda per intero e non abbandona un attimo lo spettatore, pur in un film decisamente lungo ma che è tale senza eccessi, nel rispetto dei tempi necessari alle elaborazioni umane.
Densità emotiva e sobrietà costituiscono, a mio parere, la doppia cifra narrativa che contiene ogni azione del film, ogni suo gesto, parola, immagine, ogni rimando a significati quasi mai resi direttamente comprensibili. E’ attraverso l’emotività, più che il linguaggio, che entriamo profondamente in questo film.
Boston, inverno gelido. In un seminterrato vive e lavora come idraulico tuttofare un uomo ancora giovane, Lee – protagonista l’ottimo e dolente Casey Affleck (meritatamente vincitore dell’Oscar) – ruvido e solitario, sembra aver vissuto cent’anni, lascia intuire un passato che non si dimentica, un futuro che non s’intravvede, vive alla giornata lavorando. Non ama la gente, non cerca che la gente lo ami, litiga di frequente; allo spettatore tuttavia non sfugge un moto di identificazione affettiva verso quelle giovani spalle perennemente curve, gli occhi trasparenti, i modi rozzi che nascondono un cuore delicato e ferito.
Quando è raggiunto dalla lettera dell’ospedale che lo invita a recarsi a Manchester on the Sea (poco distante, ma sul mare, costa settentrionale del Massachusetts) per la morte del fratello Joe, sale in macchina e la sua vita cambia: dall’ingresso in ospedale il film si dipana costruendo una perfetta narrazione tra presente e passato, che lo vedono sempre assoluto protagonista ma circondato da figure che acquisiscono sempre più importanza nella realtà esterna e nel suo mondo interno. Primo fra tutti, il nipote minorenne Patrick, figlio del fratello.
Sarebbe facile, da qui in poi, presagire una storia già vista in molta cinematografia contemporanea: il ritorno rievocherà un vecchio trauma che dà ragione della chiusura ostica di Lee, il nuovo rapporto col nipote sarà foriero di aperture e cambiamenti, e così via. La regia di Lonegan riesce, invece, a non cadere nel tranello, pur seguendo in fondo una traccia non dissimile: poiché non è l’evento, il fatto, il trauma, o l’evoluzione ciò che prevale, ma quella particolare densità emotiva che si taglia col coltello che immette lo spettatore nel personaggio, qui ed ora, nella sua emozione attuale, aiutato da un cast che non eccede di una smorfia, di un’espressione quello che vuole essere il preciso intento interiore.
Tecnicamente molto efficace l’uso dei flash back ridotti all’essenziale (che oggi imperversano nei film contemporanei nella moda del trauma-che-ritorna), così come la storia della famiglia è una storia che perfettamente comprendiamo per dettagli, tutti dolorosamente normali, dolori della gente normale, che li affronta senza clamore – e qui veniamo alla cifra della sobrietà – continuando la vita di ogni giorno, lavorando, in silenzio. Un’America senza gloria, senza eroi. Dev’essere per questo che qualcuno ha avanzato un parallelo, trent’anni dopo, tra questo film e l’indimenticato esordio alla regia di Redford dell’80 con “Gente comune” (Ordinary People), rivoluzionario capolavoro che poneva fine alla “happy family” seduta intorno a un tavolo: i genitori non capivano i figli, i figli non volevano essere capiti dai genitori.
Trovo il parallelo corretto ma un po’ generico: qui non siamo chiusi in un interno ma domina – come dal titolo – la maestosità non casuale del paesaggio. Magnifiche vedute di un paesaggio costantemente innevato, stretto nella morsa del freddo e che solo alla fine comincia a sgelare, rappresentante non convenzionale del lungo inverno che gli uomini attraversano mentre la Natura li guarda, insieme alla scelta delle musiche, fanno di “Manchester on the Sea” non tanto un film drammatico, ma tragico. E’ vero invece, e ne costituisce un pregio, che la famiglia è trattata nella sua brutale “normalità”; né idealizzata, né la tragedia avviene in grandi scenari, ma per una banale serata da goliardi come ne capitano ogni fine settimana sotto i nostri tetti. Lee aveva una vita, semplice, ma serena, è quella vita è andata in fumo senza grandi perché, per banale distrazione, la legge umana non lo può punire, il senso di colpa interno lo condannerà al seminterrato in cui lo abbiamo incontrato all’inizio. Lì solo trova pace, silenzio alla peggiore delle persecuzioni, aver distrutto ciò che si amava.
Nessuno dei personaggi ha avuto vita facile, ma nessuno è esploso in drammi; tutto procede nell’ordinarietà dell’infelicità ma anche delle piccole gioie quotidiane, incarnate soprattutto dal giovane Patrick: ha perso il padre, sì, ma non la sua band, la ragazza, l’amata barca, il desiderio dei futuri investimenti. Nessuno ha avuto vita facile, a Manchester on the Sea; come scriveva Richard Yates, grande scrittore del realismo americano che mi è sempre caro ricordare, in fondo “non c’è altro di cui parlare che della famiglia. Tutto il dolore di un essere umano è nella famiglia”. I personaggi sono spinti, soprattutto nel passato, ad azioni che non avrebbero voluto, che non hanno scelto, ma che sono avvenute. In questo senso, “Manchester on the Sea” è un film tragico: la vita possiede una forza intrinseca, le cose avvengono, mentre la Natura ci guarda muta.
L’incontro tra Lee e il giovane nipote non li lascerà, naturalmente, indifferenti, anche perché con gran sorpresa di Lee il fratello ha previsto che sarà lui a doverne diventare tutore e ad occuparsene. Di nuovo, fedele alla cifra stilistica della densità emotiva e della sobrietà, non ci saranno grandi apparenti cambiamenti nella coppia che nessuno dei due, al momento (e il film fotografa momenti, lo spaccato della permanenza di Lee a Manchester per il funerale) è in grado mettere in atto. Nessuno trasloca, non è esteriore il cambiamento. Se una breccia si è aperta, il regista ce lo lascia cogliere da dettagli; film di poche parole, gesti, silenzi, sguardi, intense interpretazioni.
Il testamento, ossia la parola del padre, è la scelta umana che si inserisce nel tragico e offre un cambiamento; nella mia fantasia mi sono chiesta se questo padre amorevole, senza una madre cui lasciare Patrick, più o meno inconsciamente desiderasse rompere le loro solitudini, vincolarli a una decisione che, nel suo baratro, Lee non avrebbe mai preso.
Finale in linea col film, dimesso ma aperto, c’è cambiamento senza che nulla cambi, comincia a sgelare, sono soli ma non saranno più soli. Ingobbiti nei loro eterni giubbotti, continuano a camminare, di schiena, Patrick giocherella con una pallina tra i piedi, in salita, la passa a Lee che sta per lasciar perdere, poi invece la prende. Sta al gioco anche lui.
Febbraio 2017