Francesca Comencini, I, 2009, 98 min
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commento di Gabriella Giustino
Ho intitolato lo spazio dell’"attesa" questo commento al bel film di Francesca Comencini perché il senso d’attesa e d’impazienza che esprime la protagonista si trasmette allo spettatore durante tutta la visione.
Tratto dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella, il film è ambientato in una città difficile Napoli, cariata come un dente malsano, ma al contempo bellissima e piena d’umanità dolente.
Maria, la protagonista, è "dentro la città", impegnata nell’insegnamento serale dei più sfortunati e lo fa con passione e serietà.
La sua vita sentimentale però sembra molto complessa.
Ha appena lasciato un uomo che l’amava e, quando lo rincontra, dopo qualche tempo, evita di commentare la foto del figlio di lui (avuto da un’altra donna), come se volesse negarlo.
Maria s’innamora poi di un papà che cresce da solo il proprio figlio, ma quando è lei ad aspettare una bimba, lui l’abbandona.
Resta sola, ma in attesa di che cosa? Maria non lo sa veramente, sembra vivere la gravidanza come qualcosa d’infantile, con fierezza e notevole inconsapevolezza.
Quando arrivano le dolenti note di una nascita prematura a rischio, compare in lei un’attesa impaziente che non può risolversi con un atto volitivo ma che comporta invece lo sviluppo di uno spazio mentale per una figlia ancora non nata, né viva né morta.
L’incubatrice che protegge e fa crescere Irene è uno spazio per la bimba ma anche e soprattutto uno spazio-tempo per la madre. In questa sospensione tra la vita e la morte della sua piccola, Maria impara ad aspettare, a tollerare i suoi sentimenti d’ambivalenza, ad ascoltare gli altri nelle loro miserie umane e a non pretendere che la vita sia sempre dominabile dai propri intenti. Lei, così abituata all’autosufficienza, deve ora tollerare di dipendere dal corpicino d’Irene, cha appare sfocato ai suoi occhi ansiosi. Maria è intensamente desiderosa di vederla viva ma talvolta, pur di porre fine allo strazio dell’attesa, sembra sperare che la bimba non ce la faccia.
Il libro e il film trattano un tema molto delicato: quello della maternità interiore, spesso troppo sottovalutato. Nella nostra società sono sempre più frequenti le nuove maternità: padri senza madri e madri senza padri.
A mio avviso quello che conta veramente è lo sviluppo di uno spazio psichico idoneo per accogliere un figlio mentre talvolta si pensa solo a predisporre uno spazio concreto. Frequentemente nei nostri pazienti vediamo che quello che è mancato (nella relazione con i propri genitori) è stata questa disponibilità ad accogliere mentalmente, a saper attendere senza troppe aspettative precostituite, a prepararsi a fare il lutto di una relazione col figlio che, inevitabilmente, non sarà un idillio perfetto.
Maria sembra trovarsi in una sorta d’incubatrice mentale insieme a Irene e impara faticosamente ad aspettare senza uccidere la speranza dentro di sé.
In lingua spagnola aspettare si dice "esperar", sperare. Un compito difficile che comporta la necessità di elaborare anche il lutto di una tecnologia solo apparentemente onnipotente.
La piccola che infine la protagonista stringe tra le braccia è finalmente "sua" figlia. Maria ha imparato ad amarla-odiarla tra mille incertezze; all’inizio Irene per lei era solo un rospo nerastro sfocato, poi man mano era diventata una bimba viva e intera.
Una mia paziente in attesa di un bimbo desiderato scopre dall’ecografia, alla fine del 4 mese di gestazione, che il figlio ha un’atresia del ventricolo sinistro. Dilemma: abortire oppure no? Il bimbo ha il 30% di possibilità di uscirne vivo e sano. Rosa, la paziente, il giorno prima dell’aborto sogna di uccidere con le forbici un ragazzo nel pieno della sua vitalità. Il sogno risolve il dramma. Rosa capisce che se abortisce uccide una potenzialità di sviluppo. Se sarà il figlio e non lei a decidere di vivere o morire la paziente sente che soffrirà ma che potrà elaborare il lutto non sentendosi un’assassina, piena di colpa persecutoria.
Ma, tornando al film, cosa ha imparato ad amare Maria?
La protagonista ha imparato che nella vita bisogna amare la relazione con l’oggetto caduco, che, nella sua umana imperfezione, da un momento all’altro ci può teoricamente lasciare o deludere, che può non corrispondere a nostre aspettative precostituite, ma che possiamo stringere a noi con gioia perché è vivo, dipende da noi e vuole crescere.
Il figlio, dunque, come potenzialità di sviluppo che ci permette di tollerare meglio i limiti imposti dalla realtà.
E’ il senso del limite che Maria impara a tollerare, anche il limite dell’esistenza di tutti noi, talvolta appesa ad un filo, come per Irene, ma così misteriosamente sorprendente e capace di darci momenti d’intensa felicità.
Vorrei concludere questo commento ricordando che Bertolt Brecht, malato dal suo letto d’Ospedale, ha scritto alcune poesie molto creative.
Egli guardava dalla finestra, vedeva un uccellino cantare e ne godeva tantissimo pensando: meno male che quando non ci sarò più gli uccelli continueranno ad esistere e a cantare, deliziando chi al mondo invece ci sarà ancora.
Questo commento è stato letto all’Azienda Ospedaliera di Melegnano nell’ambito dell’iniziativa di formazione "Cinema e Psicoanalisi" dedicato al tema della maternità interiore.
30 ottobre 2010