Autori: Elisabetta Marchiori, Diana Miconi
Titolo: “Les Misérables”
Dati sul film: regia di Ladj Ly, Francia, 100’
Genere: drammatico
“Ricordate, amici miei, non ci sono né cattive erbe, né uomini cattivi.
Ci sono solo cattivi coltivatori”
(Victor Hugo – Les Misérables)
“Les Misérables”, candidato all’Oscar come Miglior Film Internazionale, vincitore del Premio della Giuria 2019 a Cannes e di altri importanti riconoscimenti, è un film di Ladj Ly. Il regista francese, i cui genitori sono originari del Mali, ha sempre vissuto nel comune di Montfermeil, nella periferia di Parigi, conosciuto non solo per la locanda “Al sergente di Waterloo” raccontata da Victor Hugo nel suo romanzo “I miserabili”, ma anche per le sue problematiche sociali mai risolte. Questa correlazione giustifica il titolo del film, che si ispira alle rivolte scoppiate nelle banlieue di Parigi nel 2005 su cui il regista aveva già girato un documentario.
Le tematiche affrontate nel film sono incredibilmente attuali se lette alla luce del recente affermarsi del movimento #BlackLivesMatter a seguito dell’omicidio di George Floyd, un uomo afro-americano morto soffocato dalla violenza gratuita di un poliziotto a Minneapolis. Questo episodio è l’ennesimo esempio di “policy brutality” contro membri della comunità nera negli Stati Uniti. Il video dell’omicidio ha fatto il giro del mondo in poco tempo, attirando l’attenzione internazionale sull’ormai innegabile problema sistemico del razzismo che permea tutti i livelli della società. Le proteste legate al movimento #BlackLivesMatter hanno dato voce ad una rabbia ed una disperazione legate a ingiustizie sistematiche perpetuate per generazioni, sfociando anche in episodi di violenza durante le proteste tra manifestanti e forze dell’ordine.
“Les Misérables” può essere visto, a un livello profondo, come la rappresentazione delle origini dell’odio e delle sue vicissitudini pulsionali (Campanile, 2014) e, a un livello socio-culturale, come una sorta di profezia che si auto-avvera, evocando un altro film diventato cult che è “L’odio” di Mathieu Kassovitz (1995). Entrambi questi film mostrano come i sintomi di secoli di razzismo e ingiustizie sociali siano chiaramente visibili quanto volontariamente ignorati dai più nella nostra società. Il potere delle visualizzazioni del video sulla morte in diretta di Floyd, rimbalzato di schermo in schermo in tutto il mondo, ha dato consistenza e “realtà” a una violenza che non può più essere nascosta. A questo video ne sono seguiti altri su fatti simili, a testimonianza della loro pandemicità.
Il film si apre con l’immagine di una Francia unita nei gioiosi festeggiamenti della vittoria dei Mondiali di calcio, un momento quasi utopico che fa temporaneamente dimenticare le grandi contraddizioni sociali del Paese. L’unità e la gioia tuttavia si sfaldano presto nella realtà della vita quotidiana dei protagonisti della banlieue parigina, all’arco di Trionfo si contrappone la povertà del ghetto popolato da gruppi minoritari relegati ai margini della società.
Il regista riesce a illustrare bene come il succedersi di ingiustizie e violenze a livello individuale e di interi gruppi etnici lascino le nuove generazioni in un vuoto istituzionale ed esistenziale dove non vi sono prospettive per il futuro e dove le istituzioni che dovrebbero proteggerli ed aiutarli sono invece proprio all’origine delle ingiustizie e delle violenze.
Lo illustra seguendo due storie che si intrecciano. La prima è quella di un gruppo di ragazzini disperati tra cui spicca Issa, che appare tra tutti il più mingherlino, ma anche il più ribelle, cacciato di casa per aver compiuto un’altra delle sue bravate, e che inconsapevolmente crea una sorta di guerra tra disgraziati quando ruba un cucciolo di leone dal circo. La seconda è quella di tre poliziotti, che incarnano tre diverse possibilità di gestione del potere. L’ultimo arrivato, Stéphane, è l’unico a sentirsi a disagio, a cogliere il livello di violenza, discriminazione e ingiustizia perpetrati nel quartiere dai suoi colleghi e a tentare di agire in modo diverso. Una voce alternativa serve, ma non basta a contrastare quella di Chris. È lui che comanda, che vede gli abitanti del quartiere come una minaccia e la violenza come il solo modo per mantenere l’ordine e incutere rispetto. Poi c’è Gwada, cresciuto proprio in quel ghetto da cui è uscito diventando poliziotto, oscillante in una posizione ambivalente che lo porta ad un agito drammatico, quello che dà una svolta alla narrazione e innesca la reazione a catena che porta alla rivolta sanguinaria dei ragazzini.
L’essere considerati una minaccia dalle istituzioni e dalla maggioranza della popolazione può in alcuni casi portare ad assumere una posizione difensiva di ritiro dalla società, ma in altri casi, quando il livello di disperazione diventa insopportabile, la rabbia e la ribellione hanno la meglio e possono sfociare in violenza, a discapito delle norme sociali e comunitarie e del rischio di ritorsioni negative (Bourgeois-Guérin, Brami, & Rousseau, 2018). È Freud stesso che per primo ha riconosciuto l’origine dell’odio nella lotta per la propria conservazione e affermazione (1915), ripensandolo poi come una delle forze motrici a salvaguardia dell’individuo e della specie (1938).
Quello che il film ci mostra appare una inevitabile escalation di violenza ancora non legata ad alcuna specifica ideologia, se non alla solidarietà e salvaguardia, appunto, del singolo e del gruppo di fronte alle violenze e alle ingiustizie subite. Sebbene il terrorismo, la discriminazione, la supremazia bianca, la corruzione, siano tutte tematiche in qualche modo toccate nel film, è chiaro che la ribellione dei giovani dà voce ad una ferita multigenerazionale profonda che affonda le sue radici nel cuore dell’inconscio del soggetto e in quello della società stessa. La mancanza di prospettive per il futuro e l’essere vittime di violenza e discriminazione rappresentano due importanti fattori di rischio per lo sviluppo di comportamenti violenti nei giovani (Miconi et al., 2020; Rousseau et al., 2019).
Il regista, usando mirabilmente lo stile documentaristico per amplificare l’impatto della fiction, porta lo spettatore a chiedersi se questi ragazzi, in queste circostanze specifiche, avessero potuto trovare tra la vendetta distruttiva e la morte psichica una terza via. Quel cucciolo d’animale mansueto non potrà che diventare un leone, ma qual è il destino di quel cucciolo d’uomo? La risposta non si può trovare solo in un processo evolutivo individuale, ma in cambiamenti radicali a livello culturale e sociale.
Il film ci mostra come il terreno dell’ostilità distruttiva, dell’odio e della violenza sia arato, dissodato e seminato da pessimi coltivatori, che lo inquinano e contaminano con scorie tanto radioattive da avvelenare le sue stesse piante. Non possiamo chiedere ai giovani di crescere come erba buona se ignoriamo che la terra che li nutre è corrotta. Non possiamo chiedere loro di essere erba buona, né di accettare le ingiustizie della loro realtà, senza dare loro una voce e la possibilità di un cambiamento.
Bibliografia
Bourgeois-Guérin, É., Brami, M., & Rousseau, C. (2018). Penser la haine après le trauma. Rhizome(3), 34-35.
Campanile P. (2014). Forme dell’odio. In AA.VV. Metamorfosi della pulsione, Franco Angeli, Milano, 137-145.
Freud (1915). Pulsioni e loro destini. OSF, 8.
Freud (1938). Compendio di psicoanalisi. OSF, 11.
Miconi, D. et al. Oulhote, Y., Hassan, G., & Rousseau, C. (2020). Sympathy for violent radicalization among college students in Quebec (Canada): The protective role of a positive future orientation. Psychology of Violence, 10(3), 344-354.
Rousseau, C., Hassan, G., Miconi, D., Lecompte, V., Mekki-Berrada, A., El Hage, H., & Oulhote, Y. (2019). From social adversity to sympathy for violent radicalization: the role of depression, religiosity and social support. Archives of Public Health, 77(1), 45.
Luglio 2020