Il registasa collocare i suoi personaggi nelle giunture dove la grande derivastorica collettiva (che va verso lo scioglimento che tutticonosciamo) si incontra con le storie individuali, che non sono peròstorie qualunque: sono quelle di chi in un modo o nell’altro può“fare qualcosa”, forse poco, ma pur sempre qualcosa che potrbbeavere un peso, un significato non transitorio.
I suoi sonopersonaggi “ideal-tipici”: il Ministro, l’Intellettuale,l’Attrice, il Burocrate-Spia. Brecht, con il suo teatro didattico,ha pur sempre insegnato qualcosa: anche se qui c’è tutto ilcontrario dello ‘straniamento’ richiesto dalla drammaturgiabrechtiana allo scopo di far “ragionare” lo spettatore, anzi c’èun’abile coinvolgimento identificatorio basato sull’ipotesi:“cosa avreste fatto al posto del personaggio?”.
Ma,fortunatamente, i Personaggi sono interpretati da Attori straordinari(altro probabile merito della regia) che riescono a far dimenticarel’eccezionalità della vicenda, e danno a ciascuno quel toccodi umanità quotidiana che permette di vedere, sotto lepreviste leggi del Personaggio, le meno prevedibili vicissitudinidella Persona, o, se vogliamo usare un linguaggio psicoanalitico, ildramma che si svolge nel teatro interiore del Sé di ciascuno.
E’,questo, un “quid” che si aggiunge quasi impercettibilmente aivari passaggi della storia, la rende “verosimile”, appuntopsicologicamente; le dà in altre parole una sorta di “anima”che parla alla nostra, di anima, e ci spinge ad accettare ilmessaggio della sopravvivenza della speranza, dell’amore e dell’umana solidarietà sia pure nelle peggiori condizioni imposteda una società assurda e da una storia crudele.
E’l’Attore che fa esistere il teatro, o il film, e non viceversa; nonper nulla nel film ci colpisce tanto la minuzia con la quale la SpiaWiesler riproduce sul pavimento del solaio la piantadell’appartamento sottostante e il suo ascolto di ciò che viaccade. Analogamente, è l’attore e non il personaggio coluiche ci commuove con la lettura della poesia di Brecht “Ricordo diMaria A.” (altra scelta non casuale, poiché il testobrechtiano è tratto dalla raccolta “Libro di devozionidomestiche” – vedi Nota).
Forse,questo intenso, complesso gioco di rimandi tra attori e personaggi(piuttosto inconsueto nel cinema di fiction) è uno dei fattoriche si trovano all’origine del successo del film presso il pubblicoin genere; ma forse è questo aspetto che ci colpisce comepsicoanalisti, costretti a stare in scena come vogliono le regole bennote del “nostro” gioco e, al tempo stesso, “tenuti” inscena dal gioco voluto/richiesto/imposto non tanto dal paziente,quanto dalle sue sofferenze e dalla sua psicopatologia. La speranzadi un cambiamento “per amore” (o quasi) o perchè comunqueuna relazione si mantiene viva al di là di tutte levicissitudini, in questo caso le tragedie della storia, appare allorail poco o tanto che è possibile offrire in quella singolareforma di fiction che (metaforicamente) è una psicoterapia ouna psicoanalisi. Né è casuale che queste riflessionipossano nascere da un film che si svolge in un mondo dove oppressi eoppressori, al di là delle apparenze, alla fine si scambianocosì facilmente i ruoli…
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“Le vitedegli altri” ha generalmente incontrato apprezzamenti da parte diquasi tutti i critici. Qualcuno si è dissociato dal coroosservando che, in un contesto che si pretende realistico, non sonoammesse cadute macroscopiche rispetto alla coerenza e allacredibilità del racconto. A partire dall’inverosimilepostazione d’ascolto nel solaio dell’abitazione dei controllati,si possono elencare diversi punti critici in cui l’onnipotenteservizio segreto sembra un’accolita di dilettanti, dove,soprattutto, l’abile e gelido capitano Wiesler si lascia andare aripetute ingenuità. Per amore? Ma certo! Ecco che trepidiamocon lui per i rischi che si assume, una volta che la sua adamantinacorazza tecnico-ideologica si viene via via incrinando. Ma il pathosnon si addice alle storie di spionaggio…
Dobbiamo(come ha fatto la maggioranza assoluta degli spettatori) concentrarcisulla coerenza drammaturgica, che è poi quello che importa alregista, oppure fare attenzione alla credibilità dellarappresentazione, che è poi quello che si chiede a un raccontoche si propone quasi come un documento di vita vissuta e unadescrizione di fatti reali?
E’ unaquestione che gli psicoanalisti conoscono bene, dato che si muovonocontinuamente tra l’estremo della pura narrazione e quello dellaricostruzione dei fatti della vita del paziente. Un film come “Levite degli altri” non riguarda questo interrogativo, ma un puntoforse più delicato, “a monte” del problema dei contenuti:precisamente quello che il film ci chiede di… essere. In una storiadove si parla di verità e menzogna come di una questionecapitale, quanta “menzogna” (chiamiamola pure finzione) deveessere ammessa?
E’indubbio che tra i poteri del cinema c’è quello di creareuna potente, totalizzante impressione di realtà. Ma resta dachiedersi quanto sia lecito approfittarne – e non stiamo parlandodel regista, che può ben poco, ma della “macchina” che simette in moto per ogni film che esista al mondo. Altrimenti detto: ilcapitano Wiesler che si commuove per una poesia e perciòstesso “diventa” quasi un poeta, e poi finisce per comportarsidi conseguenza, rappresenta una licenza drammaturgica (poetica) o, alcontrario, ci trasmette una cinica menzogna sulla mente umana e sullesue possibili metamorfosi?
Ironia dellasorte: Brecht avrebbe detto, probabilmente, che la speranza che ilfilm crea nel nostro cuore è solo “gastronomica”, cioèfa lo stesso effetto di un buon pranzo, e resta nella mente il temponecessario a digerirlo. Senza esagerare (in fondo il film èper molti aspetti assai pregevole) possiamo però chiederci,almeno, perché la psiche di tante persone, di unacolllettività notevole, ha reagito positivamente a una storiacosì lontana nel tempo, in un luogo e un ambiente cosìparticolari, costituita da un intreccio di verosimile e diimprobabile, con un finale, se non amaro, almeno agrodolce. Unastoria ambigua: né vera né falsa, né buona nécattiva.
Moltoprobabilmente non esiste una risposta univoca: proprio la suaspecificità, la sua collocazione “altrove” (storiapassata, cose che non torneranno mai) lo rende accettabile, triste maliberatorio, in qualche modo poetico. Gli occhi grigi, spalancati inuna sorta di stupore, del Capitano Wiesler diventano la “cifra”,il marchio del film: è possibile ritrovarcisi. Ma non sono,come potrebbe sembrare, gli occhi del bambino perduto che secondo laleggenda si troverebbe anche in fondo al cuore di un burocrate diquel tipo. Nonostante tutta l’attenzione che mette nello spiare, loSpione non è curioso; il suo sguardo è regolato dalPotere che gli dà il permesso di guardare: perciò, comesappiamo, egli è in realtà inetto, inutile. Questa èla “vera” speranza che ci viene da “Le vite degli altri”.
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“The GoodShepherd – L’ombra del Potere” è uscito sugli schermipoche settimane dopo “Le vite degli altri”, e sembra quasi che idue film siano destinati a una sorta di dialogo a distanza. Il filmeuropeo, raffinato e girato da un giovane aristocratico tedesco,sembrerebbe contrapporsi al film commerciale, hollywoodiano ma conqualche ambizione artistica, girato da un attore di razza come RobertDe Niro alla sua seconda prova di regia. Ma saranno poi cosìdiversi?
La “storia”di “The Good Shepherd” ha la pretesa di sorvolare grandi distesedi tempo e spazio, senza alcun tentativo di sottrarsi alle regole nonscritte del film di genere, nel caso specifico il film di“guerra/spionaggio/politica” (che include anche “la storia delloro influsso sulla vita privata dei personaggi”). Così, siricorre al vecchio sistema di partire da un episodio chiave, perrisalire attraverso dei flashback agli antecedenti di quanto staavvenendo.
L’episodioè la tentata invasione di Cuba da parte di gruppicontrorivoluzionari, nel 1961, appoggiata dai servizi segretiamericani con lo scopo di deporre Fidel Castro. Il protagonista, MattDamon/ Edward Wilson, è uno dei funzionari della C.I.A.incaricati di coordinare l’invasione, che si rivelerà unbruciante insuccesso, e innescherà una catena di eventidestinati a sfociare nella “crisi dei missili” che fece temerenel 1962 una possibile guerra nucleare.
Siamo quindial centro della grande Storia, ma si tratta anche di un centrosegreto, separato, dove uomini sconosciuti al pubblico prendonodecisioni di assoluto rilievo. Ecco allora che lo spettatore vienepreso per mano e gli si spiega, con attenzione ai particolari, comesi fa a trovarsi proprio lì, dove si giocano le sorti “vere”del mondo. Contrariamente al solito, Edward W. non si è fattoda sé, contando solo sulle sue doti, competenze e forza divolontà. Il “motore” che fa andare avanti Edward èla sua provenienza sociale: lo troviamo infatti a Yale, una delleuniversità più prestigiose, aristocratiche (e costose)della costa orientale degli Stati Uniti. E’ uno studente modello,interessato alla letteratura e a uno strano professore inglese che èanche un poeta, e lo tratta con ruvido, ma affettuoso paternalismo.Poco dopo, Edward viene “iniziato” e accolto in una potente,segreta confraternita studentesca che, si scoprirà, èben di più: un gruppo di azione politica , basato sui rapportipersonali e riservato a “Wasp” (bianchi/anglosassoni/protestanti)ben selezionati e decisi a esercitare la propria supremazia nellavita politica e sociale.
Infatti,sorpresa!, Edward è figlio di un ammiraglio, e nel corso delrituale iniziatico si apprende che egli ha un segreto terribile: haquasi assistito, bambino, al suicidio del padre e, senza sapereperché, si è impadronito della lettera d’addio, senzaaprirla.Con questo bagaglio di precedenti traumatici (che spiegano ilsuo carattere chiuso, ispido e impassibile) il nostro eroe vieneproiettato in una carriera precostituita dai soci dellaconfraternita: sposa la figlia di un senatore, la mettefrettolosamente incinta, e viene proiettato, a guerra appenainiziata, in Inghilterra, dove si mettono le basi del futuro serviziosegreto militare con l’aiuto dei più esperti cuginibritannici…
E, nuovasorpresa, il professore di letteratura e poeta era una spia, nellamigliore tradizione degli scrittori giramondo inglesi. Purtroppo, èanche omosessuale e per ragioni di sicurezza occorreràsopprimerlo senza far troppo chiasso, non senza dispiacere di Edward.
Di qui inpoi, il sempre silenzioso e spesso antipatico protagonista seguiràil “cursus honorum” delle spie: Berlino, giochi sporchi con isovietici, America Latina, colpi di stato e distruzione di raccoltiper impedire eccessi di autonomia, la creazione di una grande agenziadi spionaggio bene inserita nella struttura del potere, sponsorizzatadagli amici della confraternita, che ci tengono a escludere “negrie ebrei”, e quanto ai cattolici (irlandesi e soprattutto italiani)“pochi, e solo perché io sono cattolico” dichiara in unarapida apparizione De Niro, nelle vesti di un alto papavero chepresiede all’operazione.
Damon/Edwarddiventa sempre più grigio, impermeabile/borsa/cappello, enello stesso tempo vive sempre di più una doppia vita, fattadi segreto, di imprevedibilità e soprattutto di tradimento.Qual è la verità, in questo continuo rincorrersi?Edward è soprannominato “Madre” dai sovietici, mentre ilsuo omologo russo è “Ulysses”: e questi due singolaripersonaggi finiscono persino per sviluppare una sorta di complicità,come del resto (fa capire una spia russa messa alle strette) c’èuna complicità tra i complessi militari/industriali dei dueblocchi che dalla paranoia reciproca traggono vantaggi enormi.
Il tutto siconcretizzerà sul versante personale quando il figlio diEdward (ampiamente traumatizzato a sua volta dall’assenza e dalcarattere del padre) vorrà entrare nello spionaggio e, propriomentre il babbo si dedica agli affari cubani, finisce per passareinvolontariamente un’informazione a un’avvenente ragazza africanache, si dà il caso, è al servizio del KGB. Avvertito,Edward fa sopprimere la ragazza il giorno fissato per il matrimonio,fa capire al figlio il luttuoso epilogo, e lo abbraccia annunciando(più che altro al pubblico) che l’ha fatto per proteggerlo.
Intervengonoa questo punto due scene–madri (ma la storia è ancora piùcomplicata) che danno all’intera vicenda il suo senso psicologicospecifico. Nella prima, Edward apre infine la lettera lasciata da suopadre prima del suicidio. L’ammiraglio ammette di aver compromessoil suo onore, e lascia idealmente al figlio la custodia delle virtùpatriottiche e familiari: Edward, con piccoli gesti accurati, dàfuoco alla lettera, che svanisce nel nulla. Al di là delleconvenzioni di genere, per cui bruciare una lettera è un gestocatartico infinite volte ripetuto nei film drammatici, c’èda chiedersi quale messaggio racchiuda la lettera, non per Edward, maper lo spettatore che l’ha seguito fin lì.
Fine di unlutto fino ad allora non elaborato, con superamento del traumatramite identificazione con i valori paterni/patriottici? Assunzionedel ruolo paterno con tutte le sue difficoltà, errori edolori, dopo la vicenda che ha coinvolto il figlio? O un improvvisosenso dell’inanità di tutta la propria vita, seminata dilutti (altrui) come se fosse quella di un serial killer?Certamente,la presenza del Segreto, inteso come una categoria dello spirito deltempo, e la correlativa impossibilità di un significato certodelle cose, anche le più banali, domina tutta la storia e,alla fine, anche la mente dello spettatore ne viene pervasa, con unsenso di noia che eccheggia la possibile disperazione di Edwardmentre le fiamme cancellano ogni traccia della figura paterna.
Acquista unparticolare significato, allora, la scena finale del film.Damon/Edward, solita espressione impassibile, impermeabile grigio,prende possesso dell’ala dell’Agenzia che gli è destinata.E’il capo: sempre più potente, ha sbaragliato gli altricompetitori (forse altri traditori in potenza). Ma l’interopanorama è grigio: i corridoi sono tutti uguali, illuminatidalla stessa luce piatta, le porte in fila, ognuna a nascondere altriuomini omologhi, tutti con i loro piccoli grandi segreti. Vengonoalla mente le parole di Hanna Arendt sulla banalità del male esulla “violenza irresponsabile” rappresentata dalla burocraziaonnipresente anche nella più perfetta delle democrazie.
Era questa,la riflessione alla base di questo film, quello che De Niro,regista/attore “liberal” voleva trasmettere al pubblico, in unpreciso momento della storia del suo paese (il riferimento allevicende cubane sarebbe allora tendenzioso) per non parlare dellastoria di tutto il mondo occidentale? Il progressivo inaridirsi delprotagonista sarebbe una metafora di una più grave, estesaaridità che accomuna i politici di ogni partito e i loroelettori, complici, come un tempo i “guerrieri dei due blocchi, nelnegare i cambiamenti e la necessità di un pensiero diverso, diun’ uscita dalla presa degli assunti di base che dominano la vitadei gruppi, piccoli e grandi, in questo momento storico. Siaccentuerebbe allora l’ironia insita nel titolo “The GoodShepherd”, che in italiano suonerebbe “Il buon pastore” ma ininglese evoca più precisamente le pecore, il loro stare ingregge, tutte insieme, guidate da una mente estranea verso un destinosconosciuto.
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La “teoriadel trauma” che sta alla base di “The Good Shepherd” meritaqualche riflessione. Il fatto che una storia così complessa,ricca di riferimenti storici e geopolitici, abbia bisogno di una“formula” pseudo-psicoanalitica per reggere il versantepersonale/individuale della vicenda, non può che colpirel’attenzione per diversi motivi. Uno di essi potrebbe essere laconstatazione dell’estrema usura raggiunta dalle rappresentazionimass-mediatiche del pensiero psicoanalitico. Il trauma spiega tutto(come del resto fanno gli abusi e i maltrattamenti) e appare ormaicome un mero espediente retorico, volto a persuadere senza ulterioripassaggi che ciò che avviene ha una causa ben chiara e non c’èbisogno d’altri approfondimenti. Trauma e destino sono consideratiequivalenti, ma non servono a liberare dai sensi di colpa, come sipoteva pensare un tempo, bensi a congelarli, a denegarli in attesa diuna possibile risoluzione, che in realtà non verrà mai.Infatti la “vera” soluzione della sofferenza traumatica non èil lutto, ma la trasmissione del segreto e la relativa consegna diconservarlo per sempre. Tuttavia, non si tratta soltanto di teneresegreti degli eventi, dei fatti: come nel film, che mostra un segretocondiviso da tutti nel corso della cerimonia iniziatica (Edward,completamente nudo, racconta del suicidio paterno) si tratta diaccettare che il Segreto plani su ogni cosa, che tutto sia, indefinitiva, incomprensibile.
Le pecorepossono sognare, ma non essere curiose: in tal senso i due filmpossono essere accostati, e l’americano, così apparentementebanale, può rivelarsi più inquietante e significativodel teatro-da-camera europeo. Infatti, De Niro, a ben vedere, siconcede meno ottimismo del regista europeo, che parla a cose giàavvenute, fatti i giochi, nulla può essere cambiato davvero,tanto vale accontentarsi di un film. Certo, anche il buon pastoreEdward appartiene al passato, anzi forse tutta la storia non fa chealludere a qualche personaggio reale: ma il problema che rimane èquello della verità, o almeno di qualcosa che le assomigli.Unaverità per tutti i giorni, che forse nel mondo odierno, ormai,nessuno può essere certo di possedere con assoluta sicurezza.
Nessuno ècosì ingenuo da invocare la coincidenza tra veritàpubblica e verità privata, ma resta necessario che almeno visia una differenza percepibile tra le due. Proprio la fiction piùspudorata (“The Good Shepherd” appartiene senza dubbio a questacategoria) ci pone un problema inquietante, che del resto rimbalzasempre più spesso nella stanza d’analisi. “Dove mi trovo”?C’è davvero un luogo privato, dove si può essereautentici? O devo rassegnarmi a capire le cose raccogliendo messaggioscuri, brandelli di informazione, grandi apparenti scenografie chesi rivelano poi degli inganni?
Forse questidue film si somigliano proprio nel loro porre fortemente il temadell’identità personale e “personificata” (maiacquistata, mai perduta) nel mondo dove tutto, per essere diventatotroppo visibile, rischia di sfumare, insieme con il Sé,nell’indefinito, nel grigiore su cui si chiudono entrambe levicende, anche quella un po’ più patetica, de “Le vitedegli altri”. E dispiace vedere come la psicoanalisi e la poesiavengano esorcizzate rendendole meri espedienti di sceneggiatura,appartenenti al paesaggio delle retoriche di genere. Ma forse, c’erapur sempre un desiderio di portarle alla luce, di sottrarle al corsoinesorabile delle Storia, come oasi per un Sé intatto,bisognoso di credere nonstante tutto alla forza della parola “piena”,la protagonista, nonostante tutto, del discorso poetico come diquello psicoanalitico.
NOTA a “Levite degli altri”
“Erinnerungan die Marie A.” (Ricordo di Maria A.)appartiene a una raccolta di poesie risalenti agli anni tra il 1918 eil 1927. Il titolo (Hauspostille) viene tradotto “Libro didevozioni domestiche”, con riferimento alla pia abitudine didedicare una preghiera ad ogni circostanza della giornata. Brecht èancora un poeta di altissima tensione lirica in questo momento. Solopiù tardi diventerà l’autore “politico” checonosciamo. “Ricordo di Maria A.” è una poesia di trestrofe: nella prima, il poeta stringe a sé l’amata e vedescorrere nel cielo una nuvola bianca. Nella seconda strofa, cominciaa dimenticare: “Pure il suo volto più non lo rammento, /questo rammento: l’ho baciato un giorno.” Nella terza e ultimastrofa, solo il ricordo della nuvola permette di ricordare qualcosadel lontano amore: “e quella donna ha forse sette figli, / lanuvola fiorì solo un istante / e quando riguardai sparìnel vento.” Trad. R. Fertonani, Einaudi. La scelta di questapoesia, come si vede, attribuisce alla scena della sua lettura, nelfilm, un significato del tutto particolare.