di Alice Rohrwacher, Italia, 111 min
commento di Adriana d’Arezzo
Lo giuro 100 1000 volte a sera
Ma disperata come una preghiera
non voglio più svegliarmi sola sola…
se non ci sarai
prometto… prometti… per sempre sarà…
quest’amore sarà un incendio
indietro non si tornerà…
t’appartengo e poi ci tengo e se ci tengo poi mantengo….
m’appartieni e poi ci tieni
tu prometti e poi mantieni
(‘T’appartengo’, Ambra Angiolini)
Pensieri agitati, emozioni, tristezza mista a speranza sono i disordini che la poesia di questo film, tra fiction e realtà, ha generato dentro di me. Un film in cui il registro autobiografico di Alice Rorhwacher rappresenta un dettaglio sullo sfondo. Ciò che cattura è l’indagine poetica su una vita familiare, sulla potenza dei legami e degli affetti, sulle origini del senso di sé che emerge dalle insicurezze e dalle paure dell’adolescenza.
Il racconto entra nelle pieghe dell’esperienza soggettiva, nella trasmissione di regole e valori tra genitori e figli, nella “la pelle” che avvolge i membri della famiglia, nella sofferenza delle espansioni e delle abrasioni, con le minacciose apparizioni di nuovi progetti e nuovi legami. Ogni personaggio è tratteggiato con tenerezza, con le sue peculiarità caratteriali, anche se le storie di ciascuno restano, per noi spettatori, solo ipotesi.
Ad un livello più immediato, in primo piano, c’è l’adolescenza di Gelsomina, primogenita devota collaboratrice del padre, apicoltore, alle prese con i primi desideri di emancipazione, la paura del tradimento del suo passato mondo infantile. All’inizio, ancora oscillante tra la gelosia per le sorelle nate dopo di lei, l’antica attrazione per il letto dei genitori e i nuovi desideri per il mondo di fuori, sconosciuto e affascinante. Più profondamente, la storia ruota intorno alla natura dei legami familiari, a quanto viene trasmesso al di là di ogni consapevole intenzione e di ogni concreto impedimento. Cosa determina scelte così “incomprensibili” per il senso comune? Quale il senso profondo di uno stile di vita faticoso e inconsueto?
La figura del padre, apicoltore nella vita e nell’animo. Fedele ad un mondo contadino che sente minacciato da aspirazioni annoverate nella categoria del falso e del superficiale, attento osservatore di ogni cambiamento climatico, di ogni microfrattura dell’equilibrio ecologico sembra incapace di sintonizzazioni emotive con chi gli è accanto. Allenato al fare, ad aspettare e resistere, capace, anche, di vitali alleanze coi sogni grandiosi dei più piccoli. Le api, infatti, indicatori ecologici della salute della terra ben si prestano a rappresentare quanto di più vero quest’uomo intende preservare e trasmettere con scelte familiari inconsuete per la maggioranza degli Italiani di oggi. Un uomo che desidera difendere la sua famiglia, come le sue api, da contaminazioni ambientali vissute come allo stesso modo distruttive. Non è il padre padrone di Gavino Ledda, ma – come dice nel film la madre – “senza di lui si respira”. Un padre dallo stile di vita duro, alla ricerca di qualcosa di affidabile e certo, in contatto con la natura che col susseguirsi dei ritmi delle stagioni e dei raccolti, con la severità delle sue leggi è da lui intesa, probabilmente, come fonte indiscutibile di sicurezza, invoca una integrità totale. Una famiglia che vive come assediata da un mondo distante e incomprensibile, perché, per il padre apocalittico, c’è “un mondo che sta per finire”. Famiglia in cui si parlano lingue diverse, il tedesco, il francese e l’italiano, come resti sopravvissuti di precedenti migrazioni. La miscela di qualità contrastanti, rigore, genuinità, resistenza al conformismo, fragilità e sopruso costituisce forse il doloroso legante della coppia e il controverso fascino di quest’uomo. Al suo fianco, infatti, una moglie capace di tollerare, mediare con le intemperanze infantili di un uomo rude e di sostenerlo segretamente per fornire ai figli l’indispensabile quota di tenerezza e di spazio di fantasia. Capace anche di arginare le derive paranoidi del pensiero del marito “vuoi che diventi una contadina?” gli urla in un impeto di ribellione di fronte all’ennesima, minacciata chiusura. L’arrivo di Martin, ragazzo difficile e solitario, come l’ingresso nell’adolescenza di Gelsomina nonché l’incontro fortuito con una troupe televisiva che gira uno spot e propone un sogno, aprono un varco nell’isolamento, avviano contatti temuti e insperati col mondo di fuori. Gelsomina, posta di fronte alla sfida adolescenziale, costruisce in modo poetico su questa linea di contatto nuovi angoli visuali da cui osservare le proprie origini e progettare la propria soggettività.
Lo spazio fin ad allora praticato di primogenita dedita a riparare, tra le altre, la ferita dell’assenza di un figlio maschio non arrivato, di ambivalente alleanza con le sorelle, di fedele ancella del padre, di ritiro “pseudonarcisistico” nella ripetitività sognante di canzonette simili a ritmiche filastrocche infantili, diviene ora angusto e impraticabile. Come in “Salvo”, l’opera prima di A.Piazza e F.Grassadonia, il ritmo di una canzone che si ripete incessantemente accompagna la nascita del nuovo soggetto. Semplice e rassicurante come una ninna nanna che ci si canta da sé. “La convergenza tra musica e affetti nasce pertanto dal fatto che all’inizio era il Suono, il Suono era presso la Madre e la Madre era il Suono” (Fornari, Psicoanalisi della musica, 1984). Si tratta di un linguaggio “apparentemente narcisistico” dice ancora Fornari, “nel senso che il suo significato appare promosso dal riverberarsi reciproco dei significanti” (v. anche Patel, 2008, La musica, il linguaggio e il cervello).
La traversata solitaria notturna di Gelsomina, resa possibile dal sostegno materno, sulle acque cupe del lago di Bolsena per raggiungere l’isola-Martin, altro da sé, potenziale compagno, uguale e diverso, ben si presta a rappresentare il faticoso attraversamento di spazi insidiosi. A rappresentare la costruzione di transiti, mai definitivi, tra sponde differenti, tra il familiare e il nuovo, tra differenti parti di sé. A guardare bene quanto portarsi dietro e quanto lasciare andare, a sperimentare il ritorno, guardare con occhi nuovi il già noto. Rende possibile la propria ricerca di senso per poter poi narrare esperienze, così distanti da quelle dei coetanei, fuori dal coro, trasformare l’indicibile.
giugno 2014