Cultura e Società

La vita che vorrei

31/10/08

Le sedute procedevano senza problemi e Barbara sembrava ben disciplinata verso le regole e persino ossequiosa del contratto. In prossimità di quella che io avevo deciso dover essere la fine della terapia, Barbara, attraverso un sogno, può esprimermi finalmente il suo progetto che, come infinite volte era già accaduto nella sua vita, rischiava ancora di essere violato da nuove regole e comportamenti a cui attenersi scrupolosamente per sopravvivere. "Ero nella stanza di terapia e lei, dottore, mi stava di fronte. Al mio fianco, mia sorella maggiore (quella antipatica). Io cercavo di cantare: soprattutto la situazione era che io non riuscivo a parlare ma intonavo – senza parole – un motivo. Mia sorella parlava con lei e lei era molto preoccupato per il fatto che io non riuscissi a parlare. Rivolto a mia sorella lei sottolineava con preoccupazione che "Barbara non riesce a parlare". Ricordo che il motivo che intonavo era: Senza fine di Gino Paoli!”.

 

Quando finisce un film? Forse quando lasci gli attori sullo schermo ad aspettare nuovi spettatori che verranno? E che vedranno lo stesso film che hai appena finito di vedere? Uscendo dal cinema mi trovo a pensare che i film, quando funzionano, non finiscono mai, perché è difficile il crinale fra ciò che ti viene mostrato e ciò che vedi: “… e poi, mentre stiamo guardando, dobbiamo permetterci di riconoscere il significato che sta oltre” (Bion). Anche le cure, quando le cose vanno bene, non finiscono mai. Soltanto, cambiano i personaggi e le scene e i terapeuti possono gradualmente collocarsi sullo sfondo: “…col tempo il bambino comincia ad aver bisogno che la madre non riesca ad adattarsi…” (Winnicott).

 

Stefano e Laura, ad un certo punto, cominciano a temere che il loro film possa finire: “finiamo questo film e poi non incontriamoci più… non telefonarmi… non cercarmi… non voglio più vederti!”, ma per entrambi il film non può finire, ma può solo inserirsi, in modo sempre più pregnante nella vita comune. Per entrambi, il film è continuamente lo spazio dei sogni che – come gli analisti sanno bene – trasformano continuamente la vita, presentandoci di ogni esperienza un altro possibile vertice. E’ quello di cui mi parla Ottavio, che per alcuni mesi mi diceva di non sognare e che in una fase di particolare eccitamento riusciva appena a dormire poche ore, tenuto sveglio dalla urgenza dei pensieri che, seppure nel delirio, erano i soli a tenerlo vivo. In quel periodo gli ho più volte proposto la mia preoccupazione commentando che senza sogni e senza sonno ci si ammala, ma per lui era assolutamente difficile accettare di aver bisogno di altri aiuti se non solo delle nostre sedute. Mi sentivo investito di enorme responsabilità e, per mesi ho temuto che le sedute potessero non essere sufficienti a contenere la sua crisi. Il viraggio si è segnalato con quella che lui stesso ha chiamato una “visione” durante la seduta. “Non saprei, mi dice, mi è venuta in mente una immagine: io che pedalo su una bicicletta molto piccola. Potevo avere 2 o 3 anni! E’ strano che io possa avere un ricordo simile. Forse si tratta di un’immagine di cui qualcun altro deve avermi parlato… o di una fotografia…!”. Sento che è una buona comunicazione; che, dopo mesi di faticosa crisi, Ottavio ripristina una funzione esterna capace di osservarlo e da dove potersi osservare. Un po’ glielo dico e subito mi propone un’altra immagine in cui lui cerca di aiutare un amico ferito, senza riuscirci, finché non riesce ad accompagnarlo in ospedale dove poi sarà curato. Nelle sedute successive ritornano i sogni da cui Ottavio cerca di difendersi: “sono sogni insignificanti, dottore… poi…, riesco solo a ricordare qualche frammento!…” Io e lui ci disponiamo a seguire i suoi sogni che riprendono a scorrere sul nostro schermo. In queste fasi, non sono importanti i contenuti dei sogni, quanto soprattutto il fatto di aver ripristinato una struttura tridimensionale che ci permette di osservarci mentre osserviamo e veniamo osservati: “perché c’è sempre una persona che può udire quello che pensi, e quella persona sei tu” (Bion).

Laura e Stefano hanno bisogno del film per potersi incontrare e per poter vivere l’amore e la passione. Mi è sembrato che nella vita del loro film la passione, come nei sogni, sia più pura e alta, più intensa e musicale, mentre la realtà di Stefano e Laura, è fatta di fraintendimenti, conflittualità e rabbia:“questo è il mio film… non devi fare niente!… non hai qualcosa da fare? una mostra da andare a vedere?”; “con te mi sento peggio di quella che sono… non voglio più vederti”.

Per Laura il personaggio di Eleonora è la zona del sogno possibile e della cura: le chiedono: “che ne pensi di Eleonora?” “mi è sembrata un personaggio che capisco… che conosco da sempre!” Per Stefano Federico è la possibilità, nel sogno, di potersi finalmente innamorare, di lasciare che il proprio spazio sia frequentato, persino abitato da qualcun altro: “quanti fratelli ho?… te lo ricordi? Di che segno sono? Quand’è il mio compleanno? Te lo ricordi?” “non lo so… ma che c’entra?… non sei tu… è colpa mia… non sento niente per te!”. Per questo i due, nel Doppio sogno comune, si cercano e non possono lasciarsi: “Non la lascerò finché non mi dirà quando posso rivederla!” “Non peggiori la situazione, Federico! … Giovedì… il conte sarà fuori per un impegno. Potremo essere soli!”

Il film sta per il sogno di entrambi, la loro storia scritta a quattro mani. Forse i personaggi, o il regista lo sanno, ma per me è difficile dire qual è la vita migliore. L’unica vita che voglio penso sia quella in cui, continuamente, ci intersechiamo con altre storie e, continuamente, usiamo il sogno per immaginare un possibile futuro. La vita che possiamo volere è quella fatta da entrambe le vite, perché Stefano ha bisogno di Federico come Laura di Eleonora per potersi incontrare: “tutto sommato se non fosse stato per questo film non ci saremmo mai incontrati!” confessa Laura a Stefano. Penso alle dichiarazioni commosse di un mio paziente che, di una sua cara amica continua a sentire che l’ha incontrata “nella vita sbagliata…” e che – forse perché la terapia procede bene – recentemente ha potuto confessarle, per gioco, che “nella prossima vita andrà a cercarla e l’amerà!”.

le storie.

L’amante di Stefano vuole portare fuori dell’isolamento di una stanza quello che le succede di emozionante, ma alcune volte questo è impossibile e si possono avere mille incontri in una stanza chiusa e, per quanto eccitanti, saremo sempre prigionieri di un terribile senso di isolamento: “Hai mai sofferto per qualcuna? Qualcuna a cui avresti voluto dire: possiamo uscire insieme questa sera? … a che serve questa storia se non posso parlarne con nessuno? Una storia che non può essere raccontata non è una storia”.

Mi è piaciuto pensare che il film mi dava l’occasione di vedere che tutti i personaggi – ciascuno portatore di una propria chiusa solitudine – nell’occasione del film/sogno si intersecavano in infiniti modi con i percorsi degli altri personaggi. Le storie allora ci appaiono infinite e concatenate come i nodi di una immensa rete o come l’acqua in cui tutte le storie vanno ad immergersi e dove – anche se non lo sanno – tutti sono in contatto con tutti.

Non mi interessa sapere se il film mi è piaciuto. So che sono rimasto a gustarmi, fino alla fine, i titoli di coda e, intera, la canzone di Gianna Nannini di cui, per la prima volta, seguivo il testo; perché a quel punto l’emozione che mi aveva colto durante tutto il film diveniva più chiara e sensibile. Le storie non finiscono mai se l’amore (la “L” e il “K” di Bion) le lega; l’amore le fa entrare in mille altre storie: “Amami ancora, fallo dolcemente, amami ancora, perdutamente!”. Il passaggio netto di questa sensazione lo colgo quando esco dal piccolo cinema della Nomentana e ricontatto le tante scene che mi scorrono davanti, per la strada dove nessuno sa di appartenere, anche se per un attimo assolutamente casuale ed anonimo, alla mia storia, perché seppure per un attimo la mia storia si interseca, casualmente con quella dei miei compagni di visione del film, con quelli che a tarda sera stanno tornando in fretta a casa e con quel gruppo di sordomuti che, nella strada, fanno cenni discreti e larghi di parole ovattate. Il film mi ha dato la sensazione di sapere che in ogni istante la mia storia si arricchisce di mille scene e personaggi che non sanno mai di essersi incontrati. Forse è questo il cuore di quello che gli analisti chiamano inconscio. Un mare infinito dove ogni storia si è incrociata con tante altre e solo poche volte ci è dato di saperlo.

 

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