Parole chiave: Superficiale, Profondo, Dominio, Sottomissione, Diniego, Inautenticità
Autore: Amedeo Falci
Titolo del film: “The room next door” (“La stanza accanto”)
Dati sul film: regia di Pedro Almodóvar, Spagna, 2024, 107′
Genere: drammatico
RISCIACQUARE I PANNI IN HUDSON
[Attenzione: spoiler!]
In una raffinata ambientazione newyorkese, la nota giornalista e corrispondente di guerra Martha – Tilda Swinton – affetta da una grave patologia oncologica, chiede alla sua cara amica scrittrice Ingrid – Julianne Moore – di poter essere accompagnata fino in fondo nella sua decisione di darsi una buona morte.
Sull’ultimo film di Almodóvar, su cui credo si sia già molto parlato, vorrei solo aggiungere tre brevi riflessioni.
Prima riflessione: che cosa è superficiale e che cosa è profondo.
Almodóvar chiude con il suo melò ispanico a tinte forti, romanzesco, coinvolgente, irriverente, trasgressivo, gioiosamente costruito con sapiente lievità su emozioni, situazioni e discorsi comuni e quotidiani. In questo nuovo film risciacqua i suoi panni nell’Hudson River, raffreddando la sua vena filmica in una New York formale, fredda, esangue, nevosa. Vira verso una sophisticated comedy, con i suoi tipici personaggi: upper class, eleganti, benestanti, mondani, intellettuali e snob, consueti alla musica, all’arte, ai libri ed ai buoni film, in genere alle prese con storie d’amore spregiudicate e raffinate, lontane dalla portata della gente comune. Solo che qui la sophisticated comedy è intorno alla morte e al come morire. Il tutto in un’ostentata galleria di tematiche liberal e progressiste: il cambiamento climatico, le corrispondenti di guerra con il loro libro appena scritto, le madri orgogliosamente single, l’inclusivitá omosessuale anche per i sacerdoti redentoristi, il conferenziere ecologista, una certo garbato uso della libertà sessuale, la calamità della destra al potere, il diritto a una buona morte. Amodóvar ci fa capire il suo passaggio dal melò ad una stagione più matura, dove sente di poter rappresentare la vita e la morte con uno sguardo pacato, saggio, profondo. Eppure in questi dialoghi eleganti, quanto algidi, tra le due donne, non si avverte nessuna autentica palpitazione emotiva sul senso della morte, né sulla indicibile tragicità ed il brutale orrore che accompagnano il morire, almeno tra la gente comune.
Ecco dunque che, pur aspirando ad un più qualitativo immergersi nelle profondità dell’animo umano, Amodóvar rimane sulla superficie di dialoghi e di interni affascinanti ed eleganti, come le due protagoniste appena uscite dalle pagine di Vogue – ma tutti quegli splendidi abiti e maglioni firmati per gli ultimi giorni ci saranno entrati nel trolley? E come la Casa Szoke (vicino Madrid) splendida quanto vuota. Tutto il contrario della precedente filmografia ispanica di Amodóvar, dove il lavorare attraverso quelle superfici emozionali, narrative e sentimentali, rivelava non solo un anticonformismo ben più graffiante della qui sfoggiata cultura progressista ma mostrava, soprattutto, una più straordinaria, intensa, vitale profondità nella reinvenzione di un teatro popolare, umano, ironico e drammatico, il suo teatro delle passioni e del desiderio, della vita e della morte (vedi, ad esempio, “Tutto su mia madre”, 1999). Esteticamente parlando, una dimensione riduttiva del (presunto) profondo, che qui va a scapito di quella precedente dimensione di autenticità e intensità rappresentazionale che prima lavoravano in modo estensivo.
Seconda riflessione: la dominanza e la sottomissione.
Malgrado il sempre manifestato spirito anti-convenzionale e liberatorio riguardo a genere, sessualità e ruoli, qui Amodóvar forse non si accorge di tornare all’antico. Quel rapporto di amicizia affettuosa, di pietosa empatia tra le due donne, rivela ad uno sguardo attento, una relazione di dominanza-sottomissione[1] modellata esattamente sulle più consuete configurazioni dei rapporti uomo/donna, dominante/dominato. È la donna malata che, più potentemente e mascolinamente, detta le regole del rapporto di assoggettamento dell’altra, nell’organizzazione narcisistica della propria morte, del tutto incurante della sofferenza della seconda, subordinata in un ruolo di ancella/spettatrice/testimone.
Terza riflessione: il diniego della sparizione.
Dopo la morte della protagonista, ecco che ne compare finalmente la figlia…impersonificata dalla medesima attrice! Se la madre è uguale alla figlia e la figlia è uguale alla madre, allora sembra non vi sia mai stata una vera scomparsa, perché la sembiante annulla la sparizione dell’oggetto. Questa continuità dell’immagine di Martha consola e forse neutralizza l’esperienza del lutto in Ingrid, l’amica, persino alimentandone l’illusione che l’altra non sia mai morta ma, stesso tempo, impedisce anche nello spettatore una profonda identificazione e compassione nel lutto. Si tratta di un’infelice scelta finale che sottrae ancora più tragicità al testo, andando a confermare quell’impressione di sostanziale artificiosità ispirativa dell’opera, e a rafforzare quel senso di vuoto ed inautenticità che abbiamo tentato, invano, di non voler riconoscere per tutta la visione del film, forse perché abbiamo amato tanto Amodóvar.
[1] Caron M., L’ancella della morte (12.7.24). https://intothewonderland.weebly.com/hollybloog-cosa-cegrave-da-vedere/lancella-della-morte