Saverio Costanzo, Italia, 2010, 118 min
commento di Rossella Valdrè
{youtube}3K4JwdW2Q44{/youtube}
Da un libro a un film…
"Soffrire: il solo modo d’acquisire la sensazione d’esistere…"
(E.M.Cioran)
C’é un orrore nell’infanzia. Forse nel fatto stesso d’essere bambini, inevitabilmente dipendenti dai grandi ("la lungamente protratta dipendenza e impotenza del bambino piccolo" scrive Freud nel ’26), da adulti spesso inconsapevoli, sofferenti a loro volta, o violenti o deboli o comunque incapaci di capire, alla mercé delle fantasie e delle paure.
Saverio Costanzo riesce a rappresentare con molta efficacia questo orrore: l’orrore dell’essere piccoli, soli, della vita famigliare. Pur all’interno di un film certo non perfetto, e di cui forse si é letto e detto troppo, trovo che in La solitudine dei numeri primi la trasposizione cinematografica riesca a rendere il film più intenso e originale del libro (qualcosa di analogo a quanto avvenuto con Il riccio), che soffre invece, sempre a mio parere, di una certa piattezza.
La storia é piuttosto nota. Alice e Mattia sono due bambini, due storie parallele, che si incontrano, si smarriscono e si ritrovano per tutto il film, che ne segue l’evoluzione dalla nascita fino alla prima maturità. La nascita é già segnata dall’impronta del trauma, che resterà traccia indelebile, e indimenticabile, lungo tutto il corso della vita. Mattia nasce con una sorella gemella di cui deve precocemente farsi carico, forse autistica (se proprio vogliamo usare una ‘categoria’), certamente disturbata e diversa dagli altri bambini fin da subito: urla, strepita, nessuno la vuole vicina nel banco. Il film si apre con le urla insensate, folli, della sorellina matta di Mattia. Tutto parte da lì, da quel’urlo. In parallelo, Alice pare una bimba timida, mite, i riccioli biondi da bambola, ore e ore passate davanti ai cartoni della televisione, dove adulti sofferenti (la madre, sempre altrove con lo sguardo) o stolidamente violenti (il padre, che la obbliga ad andare a sciare quando lei non ne ha nessuna voglia), la gettano in un inferno. Quella giornata in montagna, sotto la neve, sadicamente obbligata a sciare appresso alle urla del padre, le procurerà una caduta e una ferita da cui non si riprenderà più: resterà zoppa da una gamba, e azzoppata nell’autostima, nel senso di sè, per tutta la vita che avrà davanti.
Arriva l’adolescenza; siamo in un romanzo di formazione. Alla relativa mostruosità degli adulti, si sostituisce quella, ancora peggiore, dei coetanei, i compagni di scuola. La zoppia di Alice, pur non evidentissima, la rende ‘diversa’, con quell’andatura sciancata e leggermente sinistra, quello sguardo enigmatico, affamato di consenso, quella magrezza sempre borderline che sfocerà poi in un’anoressia di tinta psicotica…come non notarla, come non accanirsi contro di lei? Le compagne la prendono in giro, mentre ne sono anche ambiguamente attratte; con una,Viola, Alice stringe una tipica amicizia adolescenziale, intensa e intrisa di bisogno di rispecchiamento, canale doloroso ma che le permette, a una festa, di avvicinare Mattia. Ombroso e solitario, anche lui diverso, l’ha da subito colpita. E’ un’affinità elettiva.
"Essa sente tutto quello che soffro. Ogni suo sguardo mi é penetrato fino in fondo al cuore. L’ho trovata sola; non mi ha detto niente, e mi ha guardato", scrive Goethe ne Le affinità elettive.
L’ha riconosciuto, lo ha visto: solo lui tra tanti, solo lui in quell’anonima moltitudine delle feste, della vita ordinaria, potrà capirla, potrà avere un legame con lei. Nella fortunata metafora del numero primo (peraltro voluta in primis dall’editore Mondadori, e non dall’autore Giordano), sta racchiuso tutto il fascino e il mistero di queste individualità sofferte e solitarie: indivisibili, non riproducibili, uniche, une. Il contatto é profondo nella qualità, e sporadico nella frequenza; chiuso in un dolore torvo, Mattia é diventato uno studente dotatissimo, per sottrarsi forse alla pena di quella sorellina che era costretto a tenere nel banco con sè, si è rifugiato nel rassicurante mondo dei numeri, prevedibile e controllabile, accessibile dal pensiero ("devo pensare per capire") e non dalle emozioni, sempre ingannevoli e portatrici di dolori immensi.
Si intuisce un peso dentro di lui, un macigno. Fu quell’orrore dell’infanzia? Quella maledetta festa di compleanno alle elementari, di cui tanto aveva desiderato l’invito, a cui dovette andare con la sorella, ma sapendo che avrebbe dato problemi e che di fatto non era voluta da nessuno, la lasciò sola ad aspettarlo in una panchina del parco?
E’ forse la scena migliore del film. Come anticipato all’inizio, qui il regista inserisce una vena stilistica personale che trasforma la dolorosa festa di compleanno in cui Mattia dimentica la sorellina, in una festa grottesca a metà tra l’horror e il felliniano, dove i bimbi e il giocoliere sono tragiche maschere carnevalesche, inquietanti, fantocci in mano al caso e deformati dai mostri della fantasia. Sarà tutto vero? viene da chiedersi….la fantasia infantile ha creato ricordi di copertura, ha mascherato, letteralmente, qualcosa che magari é avvenuto in modo diverso?
Il trauma é essenzialmente trauma psichico. E’ nel mondo fantasmatico, nel labirinto delle rimozioni infantili, delle fantasie, delle proiezioni, che dobbiamo ricercarlo; esso vive in un mondo altro, come di vita propria, parallela, collaterale alla vita diurna, é incubo continuo. Seguendo una narrazione non lineare dove passato e presente si alternano e si accavallano, il film avvalora la dimensione atemporale dell’inconscio, la perennità e indelebilità del trauma rispetto allo scorrere della vita, la forza della coazione a ripetere che si impone quasi come necessità, come destino. Il focus é posto non tanto sulla metafora, un pò abusata in effetti, del numero primo (neanche citato), quanto sulla mostruosità dell’infanzia, della famiglia (a sua volta vittima, come la mamma di Mattia distrutta da due neonati così inaspettatamente difficili), del non essere visti e riconosciuti da bambini, e di come questa mostruosità, proprio come quella che agli adolescenti piace vedere rappresentata nei film dell’orrore, agisce dentro di noi con una forza indelebile, immane.
Mattia e Alice hanno infatti anche delle fortune, dei talenti, che però non riescono a collegare positivamente alla vita. Lui va a lavorare in Germania, premiato e apprezzato; lei sposa un giovane medico che avrà cercato di amarla in ogni modo, ma dopo poco se ne separa, nuovamente in preda ai suoi fantasmi. E’ sempre lei a cercare Mattia, e lui risponde.
Nell’incontro finale c’è un sorriso, sembra una vera felicità nel ritrovarsi….riusciranno a restare uniti, affini, solidali?
La trama del film non è tanto scritta negli eventi, scarni e semplici, quanto nel corpo. Romanzo di formazione, abbiamo detto, che narra di infanzia e adolescenza, il corpo si impone come un significante assoluto e privilegiato: é il corpo leso dell’incidente sugli sci, il corpo magro delle adolescenti segnato dai tatuaggi, è il corpo scomposto della sorellina di Mattia, é il corpo finale di un’Alice marcatamente scavata da digiuni psicotici (ma "bella", le dice Mattia, come non era mai stata), è al contrario il corpo appesantito, alla fine, di Mattia. Il corpo. L’Io è prima di tutto un Io corporeo, ci ricorda Freud. Dove non ci sono parole, dove il linguaggio non si fa ponte, metafora, dove é risicato lo scambio simbolico, il corpo prevale sulla scena.
I personaggi hanno poche parole, tutto sommato; sia nel libro (contribuendone credo al facile successo di pubblico), che nel film, dove si privilegiano le immagini e la musica, è tutto poco parlato. I personaggi agiscono, ripetono: il corpo e le azioni parlano al loro posto. Possiamo ipotizzare sia questo uno dei motivi della diffusione e del successo del libro? Il fatto, cioé, che attraverso l’io narrante di un giovane autore (forse parzialmente proiettato in Mattia), l’uso del concretismo corporeo, dell’attualità del trauma, della coazione a ripetere come evidenza non evitabile della pulsione di morte, che tutto questo abbia raggiunto il cuore del lettore contemporaneo? Una narrazione spoglia, come é quella della clinica dei nostri tempi.
Quando un libro ha tanto successo (il film ne avrà meno, poichè coraggiosamente sceglie una linea stilistica più immaginifica), personalmente mi chiedo sempre perché. Forse ci si riconosce facilmente in Mattia e Alice, personaggi assoluti, trasversali ai ceti sociali, a loro modo eterni, personaggi alla Kundera (come dimenticare Franz, Sabina, e gli altri dell’Insostenibile…?), in cui tutti più o meno possiamo ritrovare delle parti di noi. Chi non ha amato gli horror, da bambino, così da veder trasferito fuori di sè, nel meraviglioso teatro del cinema, il suo piccolo personale orrore quotidiano, vissuto o fantasticato? Chi non é andato ad una festa sentendosi penosamente escluso, o costretto a fare uno sport per far felici i genitori, chi può dirsi immune da queste antiche galere?
E’ questa prigione, l’infanzia, questo periodo che la psicoanalisi ha smascherato come affatto idilliaco, dal quale "il Sé cerca di liberarsi per tutta la vita" ha detto Bollas, é questo l’horror che deve aver raggiunto tanti lettori. Il film, osando un linguaggio più impopolare rispetto al romanzo, non cede alla tentazione di dover piacere, e si concede un’incursione kubrickiana e felliniana nel regno dei mostri infantili, a metà tra la favola e il ricordo reale, tra l’incubo e il sogno, catapultandoci in qualche minuto di discesa agli inferi. Ma sono inferi che conosciamo, quelli del mondo interno, sebbene tendano continuamente a riprodursi e ad allontanare i nostri personaggi dalla felicità. Scrive Cioran sull’odio dell’uomo contro di sè:
"Per alcuni la felicità é una sensazione così insolita che non appena la provano, si allontanano e si interrogano su questo nuovo stato; nulla di simile nel loro passato: è la prima volta che si avventurano fuori dalla sicurezza del peggio. Una luce inattesa li fa tremare, quasi che dei soli pendessero dalle loro dita per rischiarare paradisi frantumati. Perché mai questa felicità da cui attendevano la liberazione si mostra loro con tale volto? Che fare? Forse non appartiene loro, forse li ha toccati per errore. (…) Sono così poco predisposti alla felicità, che per goderne devono inglobarla nei loro passati terrori".
(E.M.Cioran, La tentazione di esistere)
ottobre 2010