Autore: Elisabetta Marchiori
Titolo: “La ragazza d’autunno” (Dylda)
Dati sul film: regia di Kantemir Balagov, Russia, 2019, 137’
Genere: drammatico
“Per noi il dolore è un’arte” (Svetlana Aleksievič, 2005)
Sono uscita dal buio di una piccolissima Sala d’Essai con gli occhi pieni di colori, di immagini pittoriche, di sguardi intensi, l’animo turbato dalla vicinanza con il dolore profondo e perverso che qualsiasi guerra si porta appresso, con il bisogno d’amore e di ritrovare un senso al vuoto intorno e dentro di sé. Via via che le sensazioni e le emozioni provocate dalla visione di “La ragazza d’autunno” andavano affievolendosi nel riprendere contatto con la realtà fuori dal cinema, ho cominciato a pensare a quello che avevo visto sullo schermo, a cercare di attribuire dei significati, fare delle ipotesi psicoanalitiche (eh sì, deformazione “professionale”), trovare spunti di riflessione, e anche scoprire chi fosse il regista, da dove arrivasse quella storia a cui le immagini avevano dato tanto spessore e tanta forza, a sapere il significato del titolo originale, che non poteva essere quello attribuito in italiano.
Sapevo solo che Kantemir Balagov, il regista di origine russa, è giovanissimo – ha ventisette anni – e che ha vinto il premio per la Regia nella Sezione “Un certain regard” a Cannes, dove gli è stato attribuito dalla stampa cinematografica l’ambito FIPRESCI. Il film è stato candidato agli Oscar come miglior film straniero, ma si sa che tanti premi non garantiscono il capolavoro. Preferisco non sapere troppo di un film prima di andarlo a vedere: ha una storia da raccontarmi, e desidero mi sorprenda, proprio come nell’incontro con una persona che non conosco, anche nel mio lavoro quotidiano.
Con Google, si sa, in qualche minuto puoi scoprire un mondo! E così è accaduto.
Mi son chiesta come mi fossi potuta perdere “Tesnota”, l’opera prima di Balagov, e i film del suo maestro Aleksandr Sokurov, perché non avessi letto nulla di Svetlana Aleksievič giornalista e scrittrice Premio Nobel per la Letteratura nel 2015, autrice di “La guerra non ha un volto di donna”, cui è liberamente ispirata la sceneggiatura.
Con un certo senso di colpa (vedi commento di “Sorry we missed you” di Ken Loach) e però, lo devo ammettere, anche con un certo senso di gratificazione, in qualche altro minuto avevo ordinato con il famigerato Amazon Prime, in ordine: “Tesnota”, tre libri della Aleksievič, tre film in DVD di Sokurov. Il giorno dopo li avevo in mano e son lì che mi aspettano.
Ho iniziato dal libro da cui è tratto il film, per capire come avevano potuto intrecciarsi in modo così avvincente uno sguardo e un ascolto femminile con uno maschile di due generazioni diverse; la narrazione letteraria di una donna che era “figlia della Vittoria” (così lei si definisce), i cui nonni erano morti in guerra e il cui padre era miracolosamente tornato vivo dal fronte, e la narrazione cinematografica di un ragazzo russo del 1991 che, dopo aver intrapreso gli studi di Economia e Giurisprudenza li abbandona per dedicarsi alla settima arte, e con questa “far rinascere il passato”, evidentemente tanto presente.
Il titolo originale “Dylda” (Дылда, Beanpole) ha ben poco del romantico e già sentito “La ragazza d’autunno”: significa spilungona, ed è il soprannome di Lya (doppiato con “giraffa”, rinuncio a capire), protagonista insieme a Masha del film, ambientato a Leningrado alla fine dell’assedio, dopo la vittoria sui nazisti.
Nella prima parte al centro della storia c’è Lya, infermiera in un ospedale per reduci di guerra, congedata dal fronte a causa di un disturbo Post – Traumatico che le causa una sorta di “assenze” di tipo epilettico. Porta con sé il figlio di Masha, di cui si prende cura con talmente tanto amore, che tutti credono sia suo.
Nella seconda parte si fa spazio Masha, che torna, finalmente, ansiosa di riabbracciare il piccolo che teme non la riconoscerà, e si ritrova a lavorare e vivere insieme all’amica.
La relazione tra le due donne si evolve come preferisco non rivelare, andando ad esplorare temi di enorme impatto: dalla maternità alla perdita di un figlio, dall’amore alla violenza sessuale, dalla necessità delle cure all’eutanasia, dalle conseguenze traumatiche della guerra a quelle di un regime totalitario, dalla caparbietà di non arrendersi ad un destino già scritto all’impossibilità di salvezza, dagli orrori dell’umanità alla disperazione individuale.
Nonostante questa “pienezza” quest’opera appare nello stesso tempo ineffabile, proprio per lo stile e la maestria registica in cui tratta questa materia incandescente, la meravigliosa fotografia della venticinquenne Kseniya Sereda che gioca con l’ocra e il verde – colori che diventano co-protagonisti della storia – l’intensità delle interpreti, che a Torino hanno ottenuto il premio come migliori attrici.
Faccio mie impudentemente, per riuscire a concludere un discorso che potrebbe protrarsi ancora a lungo – tanti sono i percorsi cui apre al pensiero – le parole di Svetlana Aleksievič (2005): “E sotto i miei occhi la Storia si umanizza, diventa uno spaccato di normali esistenze prese nel vortice della guerra. E prende forma una diversa percezione dell’evento […]. La narrazione non è ricordare […] Si tratta di un’autentica rinascita del passato, quando il tempo torna sui propri passi. Ed è un atto eminentemente creativo” (da “La guerra non ha un volto di donna”, Bombiani).
Gennaio 2020