Daniele Luchetti, I-F, 2010, 95 min
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Commento di Fiorella Petrì
La nostra vita, il film di Daniele Luchetti presentato al Festival di Cannes, è un film duro ed amaro, come dura ed amara per molti può rivelarsi la vita, soprattutto se segnata da una perdita tragica come quella che coglie di sorpresa il protagonista del film, Claudio, interpretato dall’efficace Elio Germano (premiato a Cannes per la migliore interpretazione maschile).
Alcuni cenni a questa storia che ci offre uno spaccato di ordinaria vita operaia.
Claudio è un abile manovale edile romano trentenne; è legato da un amore intenso alla bella moglie Elena (Isabella Ragonese). Sono una coppia vitale e passionale – la loro predilezione per Vasco Rossi ne è una rappresentazione – il valore della famiglia cementifica il loro rapporto. Nonostante la fatica di arrivare a fine mese, la loro è una vita serena perché riescono a godere anche di piccole soddisfazioni, come lasciano intravedere le suggestive inquadrature di una gita al mare: il saldo legame affettivo che li unisce sostiene con fiducia il loro sguardo rivolto al futuro, simboleggiato dall’attesa del terzo figlio. Ma, come spesso accade, la vita riserva colpi mancini e questa famiglia viene travolta dalla morte di parto della giovane donna.
Elio Germano, pur essendo un giovane attore, riesce a trasmettere con forza emozioni, come quando, al funerale della moglie, ci fa sentire sulla pelle tutto il dolore di Claudio, un dolore straziante, inelaborato, mentre canta, urlando disperato, le parole del bellissimo brano di Vasco Rossi Anima fragile. La mia mente in quel momento è andata al Grido di Munch: il dolore impensabile che squarcia l’anima, può essere solo evacuato.
Potremmo guardare questo film da vari punti di vista: in chiave sociale come un film neo-realista, visto lo sfondo su cui si sviluppa la storia, una realtà sociale italiana squallida, quella delle periferie degradate, del lavoro edile in nero, dello sfruttamento degli extracomunitari, della crisi economica, dell’indebitamento, del precariato, dello squallore e del cinismo. Un’Italia odierna, corrotta e senza regole, dove l’arte d’arrangiarsi diventa la norma per affrontare la fatica del vivere.
Ma il vertice che mi sembra interessante sottolineare qui è il tema del lavoro del lutto con le sue fasi e come Luchetti, con la sua regia attenta, sia riuscito a coglierne la complessità emotiva. Da questo punto di vista, allora, le riprese sui panorami squallidi delle palazzine disabitate, non finite, sulle impalcature che si affacciano nel vuoto, richiamano alla mente quelle immagini oniriche che ben rappresentano il vuoto affettivo, il senso di scoramento che seguono ad una grave perdita, dove l’Io è avvertito come svuotato.
Inizialmente vediamo il giovane operaio stordito, smarrito, senza più punti di riferimento, reagire con il diniego: il tempo si deve fermare in attesa di un magico ritorno alla normalità. La stanza da letto, luogo emblematico e simbolico della vita di coppia, diviene luogo sacro, inviolabile, finanche l’accesso ai figli è vietato, tutto deve rimanere immobile nella speranza di un ritorno. Si tratta di un tentativo di annullare il tempo nel senso suggerito da Freud (1925. Inibizione, sintomo, angoscia) di Ungeschehenmachen cioè di rendere non accaduto il passato, nell’attuazione del desiderio onnipotente di diventare padrone tempo (Fachinelli, 1979). Il desiderio che l’evento traumatico si riveli solo come un brutto sogno, è ben reso dal regista con la scena in cui, bambini e padre, sentendo bussare alla porta di casa durante una sorta di seduta spiritica, in un tempo e una realtà sospesi, si aspettano (e noi con loro) di rivedere, come in una magia, ricomparire la bella mamma. Ripenso, a questo proposito, a una mia paziente adolescente che dopo la morte improvvisa della madre, vagava, per ore e ore, per la città con la segreta speranza di rincontrarla.
Claudio reagisce alla perdita non solo con il diniego, ma anche con rabbia, con una voglia di vendetta e di rivalsa nei confronti della vita che è stata così crudele con lui e con i figli. Non potendo ancora accedere all’elaborazione del lutto, nega la perdita cercando un risarcimento attraverso l’acquisizione di beni materiali e, con pochi scrupoli, cerca di realizzare questo intento assumendo comportamenti spregiudicati fuori da qualsiasi etica. Le strategie per difendersi dal dolore per una possibile perdita, sappiamo, sono le più svariate. Luchetti descrive attraverso il personaggio del fratello di Claudio (Raul Bova)- pescatore che vive da solo nella suggestiva casa paterna sul mare – forse quella parte di ognuno di noi che preferirebbe, per paura di soffrire, sottrarsi ai legami rifugiandosi in un isolamento narcisistico. Ma cosa dopo un lutto ci fa tornare a riappropriarci della nostra vita? La possibilità di riuscire a reinvestire affettivamente gli altri. Claudio attraverso la cura dei figli, si prende cura della propria parte bambina disorientata e ferita dall’abbandono dell’oggetto d’amore. Nel film di Luchetti l’affetto per i figli, la calda solidarietà dei fratelli e degli amici, hanno il potere di far avvicinare Claudio al suo dolore e a far sciogliere quel grumo di sordità emotiva che lo chiudeva con rabbia alla vita. Della scena finale, dove padre e figli giocano insieme sul lettone – che forse potremmo vedere come un po’ troppo a lieto fine – ho apprezzato soprattutto la fresca semplicità, l’autenticità del gioco, come gesto creativo, in cui due generazioni s’incontrano, per lenire ognuno il proprio dolore, un chiaro segnale che solo i legami d’amore possono avere il potere di rimettere in moto la freccia del tempo.
E tu
chissà dove sei
anima fragile
che mi ascoltavi immobile
ma senza ridere.
E ora tu chissà
chissà dove sei
avrai trovato amore
o come me, cerchi soltanto avventure
perché non vuoi più piangere!
E la vita continua
anche senza di noi
che siamo lontano ormai
da tutte quelle situazioni che ci univano
da tutte quelle piccole emozioni che bastavano
da tutte quelle situazioni che non tornano mai!
Perché col tempo cambia tutto lo sai
cambiamo anche noi
e cambiamo anche noi!