Dati sul film: regia di Paolo Sorrentino, Francia, Italia, 2013, 142 min
Trailer:
Giudizio: 3/5 ***
Genere: drammatico
Trama
Qual è la Grande Bellezza? Forse quella di Roma, unica rimasta immutabile nello splendore delle sue antichità, illuminate da riflessi, luci, esaltate da squarci di vedute notturne? A mutare, invece, è stata negli anni – antropologicamente – quell’umanità forse poco vicina al comune cittadino, che abita quel sottobosco romano annoiato, invecchiato e stanco che Fellini aveva immortalato ne La dolce vita (e direi anche ne I vitelloni), di cui il film vorrebbe essere ideale sequel cinquant’anni dopo, con esiti in parte riusciti e in parte no: il film ha tutto sommato una sua vita propria, autonoma, e non manca di una sua poetica. Sorrentino riprende il filo interrotto di quell’umanità e la colloca in un oggi che, più che felliniano, la avvicina a I nuovi mostri, rischiando di abusare e trasformare in maschera il pur eccellente Servillo e il suo entourage. Al Marcello degli anni ’50 si sostituisce infatti un ex scrittore di ex talento, che dopo un primo fortunato romanzo trascina la sue nottate tra feste, chiacchiere vacue, incontri sempre uguali e spesso molto dolenti. Scene che conosciamo: nudità inutili, cocaina, sprechi…sono spesso i figli a morire, il tutto mescolato in un quello che definirei un grottesco drammatico non privo di qualche punta poetica.
Andare o non andare a vedere il film?
Spaccato di un sottobosco umano che comunque esiste, anzi sopravvive, come un dinosauro malato; e tutto l’umano ci interessa. Perché rappresenta abbastanza bene, con chiave stilistica che privilegia l’immagine alla parola, una deriva specifica del nostro Paese osservata però, negli occhi del Servillo-io narrante, senza giudizio, senza eccessi di moralismo, con una certa pietas…Ciascuno fa come ha potuto: per pigrizia lo scrittore non produce più, perché “lo stare bene non è fatto per me” la Ferrilli si ammala…Tra questi nobili decaduti che si fanno pagare per essere invitati, residua comunque un’infelicità greve da cui nessuno può dirsi veramente salvo, né ergersi a vero censore. Ma soprattutto, più che sui contenuti vale la pena di vederlo per la potenza delle immagini: ci si lasci andare come ad un mezzo sogno, fellinianamente, come a un quadro di Dalì, o alle maschere dell’ultimo Picasso, o a un certo Bonuel… Credo sia con questo stato recettivo un pò oniroide che meglio si coglie il carnevale triste in cui il regista ci introduce.
La versione dello psicoanalista
Come si perde un uomo, anche di talento, come il protagonista? Come si perde un’intera generazione, che pure possedeva tutti gli strumenti? L’intreccio tra deriva consumistica e corruttiva, ossia l’ambiente, e il decadimento dei codici interni su cui oggi tanto la psicoanalisi dibatte e ragiona, è forse l’elemento più specifico al nostro occhio. Si sono sfaldati i Padri, le coppie, quei regolamenti superegoici che ci tengono ancorati a doveri e ideali, a favore di un’effimera ricerca di godimento e di mito dell’immagine, lasciando i soggetti disorientati eppure come impossibilitati al cambiamento. Non credo, tuttavia, che l’anima del film sia – volutamente – in un intento interpretativo: è l’immagine che parla da sé, è la scena. Un nuovo Impero Romano destinato a scomparire, logorato da scandali e corruzione, di cui resterà solo l’immortalità della bellezza monumentaria? O, come sembra suggerire l’ultima inquadratura, tra le macerie residua ancora un poco di speranza?
28 Maggio 2013