Cultura e Società

La bestia nel cuore di C. Comencini. Recensione di G. Giustino

22/02/10

La bestia nel cuore

Cristina Comencini, I, F, E, GB, 2005

Commento di Gabriella Giustino

 

Il riemergere della memoria traumatica infantile nel sogno

Il film comincia con una scena che si svolge in un cimitero. La protagonista che si chiama Sabina esibisce le foto dei genitori e deve espletare una macabra pratica burocratica per spostare i loro corpi.

Questo episodio, assente nel romanzo omonimo della regista, attiva in Sabina una serie di immagini/ricordi polverosi della casa della sua infanzia, che appare congelata in una grigia immobilità ed in un’ apparente conformistica normalità.

Sabina è una giovane donna dolce e un po’ troppo remissiva che ha rinunciato al sogno di fare l’attrice e lavora come doppiatrice. Convive con Franco, anch’egli attore frustrato che  non rinuncia però a provarci, sebbene con scarsi risultati. Accade così che la protagonista, donna tenera e propensa ad adattarsi, si sobbarca il mantenimento dei due in nome della coppia e del loro amore.

Sabina tollera con dolcezza e pazienza (cosa che emerge ancora meglio dal romanzo) anche le sfuriate caratteriali di Franco; anche nei rapporti sessuali con lui, che sembrano appagarla profondamente,  si nota una sorprendente arrendevolezza, lievemente eccessiva. Franco  da un lato l’ama e la ammira per questa sua dolcezza, dall’altro segretamente è irritato con lei perché la sente più capace di lui di controllarsi . Questo particolare del carattere arrendevole di Sabina (il ratto delle Sabine risuona in noi) è molto importante perché come vedremo è il primo sintomo della dissociazione  come difesa dal trauma . Vi è nella protagonista una sorta di calma e di passività, di rassegnazione verso gli eventi sfavorevoli della vita che fa pensare a qualcosa che viene negato, messo da parte, segregato. Dov’è l’aggressività normale di questa donna? (si chiede lo spettatore)  la sua capacità di difendersi, di reagire? dov’è la rabbia per le frustrazioni?

“Tu non ti arrabbi mai, sei troppo accomodante” le dice l’amica Emilia, testimone cieca della storia di Sabina, personaggio del film di cui parleremo in seguito.

Il fatto è che la protagonista, ad un certo punto della storia, comincia a vivere degli eventi apparentemente insignificanti ma che nel loro insieme permettono e favoriscono l’emergere (soprattutto nei sogni) di memorie traumatiche infantili. Come vedremo poi,  una ricostruzione del grave trauma infantile s’imporrà per permetterle di vivere appieno le proprie emozioni e la propria identità.

Sabina, in quello stesso periodo, sta doppiando la scena di uno stupro e la voce che “presta” ad una donna violentata è sorprendentemente realistica ed efficace; eppure Sabina alla fine del doppiaggio non mostra alcuna emozione o turbamento: appare calma e quasi indifferente. La scotomizzazione dell’affetto e la dissociazione estrema del trauma comincia così ad essere magistralmente rappresentata .

La regista del film, come già accennato in precedenza, è autrice di un omonimo romanzo che si dilunga  più estesamente su accenni di riflessioni, immagini mentali ed interiori che cominciano pian piano ad affacciarsi alla mente di Sabina. Tuttavia trovo che l’efficacia cinematografica di questi comportamenti distaccati dell’attrice protagonista sia molto indovinata nel linguaggio visivo del film. Accade poi che la direttrice del doppiaggio  (ironica collaboratrice e amica)  svela a Sabina di essere stata lasciata dal marito a causa di una compagna di classe della figlia.

Questo disvelamento drammatico attiva in Sabina non solo la pena per l’amica ferita ma anche qualcos’altro. Com’è possibile, sembra chiedersi la protagonista senza capire, che un uomo così avanti con l’età abbia una relazione sessuale con una ragazza che potrebbe essere sua figlia? La maestria della regista consiste nel farci sospettare, poco a poco, che cosa l’inconscio emotivo di Sabina nasconde, il segreto che nega a se stessa di ricordare.

Contemporaneamente la relazione con Franco è sempre più intensa e il compagno sembra maturare l’esigenza di accettare un lavoro meno qualificato ma ben pagato (anche per stabilizzare la relazione con Sabina).

A questo punto si affacciano alla  mente donna sprazzi di fantasie di gravidanza (che la regista esplicita meglio nel romanzo ma che si intuiscono anche dal film) . E’ questo bisogno di uno spazio psichico per un figlio che attiva definitivamente le angosce e la necessità di rielaborare il trauma dissociato?

Io credo di si perché è proprio a questo punto che cominciano a comparire sogni connotati da frammenti fortemente angoscianti riguardanti il padre e che alludono a “qualcosa di troppo intimo” avvenuto con lui. Sabina si risveglia angosciata : una parte di lei ha una sorta di consapevolezza inconscia (un conosciuto non pensato) dell’accaduto, un’altra parte non comprende, è perplessa, non sa di sapere. I dubbi la pervadono ed è per questo che decide di partire per l’America ed incontrare l’amato fratello Daniele che non vede da molti anni.

Ora Sabina sa di aspettare un bambino ma non rivela nulla a Franco: prima deve capire, sistemare dentro di sé un storia che preme per essere ricordata soprattutto attraverso i dettagli angoscianti del sogno.

Recentemente ho scritto un lavoro sull’IJP sul tema della memoria traumatica nel sogno.

Vi sono alcuni sogni che, come uno scrigno, conservano intatta la memoria del trauma infantile rimosso o dissociato e che vanno a completare le lacune della storia della persona.

Io ritengo che sia utile che in analisi l’interpretazione di questi sogni vada fatta guardando intuitivamente al passato più che al qui ed ora della relazione analitica. E’ ovvio che la relazione analitica  ha riattivato una configurazione emotiva con gli oggetti primari che vengono proiettati nell’analista. Tuttavia io ritengo, come spiego nel lavoro,  molto importante ricostruire la verità emotiva del passato così com’è inscritta nel mondo interno del paziente. Esiste un’ampia letteratura sul collegamento tra sogni e memoria del trauma e vi sono anche importanti evidenze neuroscientifiche che spiegano tale meccanismo. Si tratta comunque di un fenomeno intuitivo nella vita delle persone  perché quando Sabina (in America) rivela di aver fatto dei sogni strani e angoscianti riguardanti il padre al fratello questi subito si allarma. Daniele, testimone e vittima “vedente” della pedofilia incestuosa del padre, le chiede ansioso: “cos’hai sognato?” e poi le dice: “dimentica, sono solo sogni”. Daniele  sa ma tenta di proteggere la sorella dal dolore. Nel romanzo il fratello dice: “dimentica sogni e morti” mentre Sabina continua a chiedersi: “perché ha detto così? i morti va bene vanno dimenticati, ma i sogni sono dei vivi, perchè dimenticarli e non cercare di capirli?”

Emilia l’amica d’infanzia, che poi crescendo era diventata cieca (ed era segretamente innamorata di Sabina), rappresenta una parte di lei che nega e dissocia; Daniele invece è la parte che vede ma che tenta invano di proteggerla dal trauma (che lui stesso ha subito con disatrose conseguenze). Mi chiedo se si può eludere il trauma per sempre:  si può non rielaborarlo mai per non soffrire? Forse si, ma il film suggerisce che per crescere, maturare e vivere con pienezza la propria identità di madre e di donna, Sabina non può non farlo, deve attraversare questo mare in tempesta doloroso ed incredibilmente sconvolgente per riemergere e diventare un’altra donna. Naturalmente il ruolo della gravidanza della protagonista è cruciale. Infatti  da un lato stimola inconsapevolmente e riattiva il trauma sessuale col padre favorendo una trasformazione emotiva dell’approccio alle figure maschili. Dall’altro riporta  in primo piano la relazione di Sabina con la madre. Una donna depressa ed infantile che non ha saputo proteggere i figli colludendo col padre,  inducendoli al silenzio e al segreto (conscio per Daniele, inconsapevole per Sabina).

La colpa inconscia patologica di Sabina la confonde sul ruolo che  ha avuto nella vicenda coi genitori e questo spiega molto bene la perplessità su di sè, la sua tendenza al sacrificio e alla sottomissione, la sua incapacità di gestire l’aggressività vitale. Non mi soffermerò su altri dettagli del film peraltro molto interessanti ma vorrei dire in conclusione che la violenza in famiglia può assumere forme molto diverse. Subdola e segreta, in questo caso, e proprio per questo pericolosa, capace  d’incistarsi nella psiche come un corpo estraneo che blocca la vitalità e inibisce lo sviluppo del senso di Sé. Ho trovato questa storia molto utile per riflettere, raccontata e messa in scena in modo sensibile e mai volgare. Ancora una volta mi sorprendo a pensare, come già faceva notare Freud molto tempo fa, quanto ne sanno intuitivamente della vita gli scrittori e  gli artisti; oggi, mi chiedo, quanti film è opportuno che noi analisti vediamo perché ci aiutino a riflettere su vicende complesse della  nostra vita  e di  quella dei nostri analizzati?

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"The Substance" di C. Fargeat. Recensione di A. Buonanno

Leggi tutto

"Berlinguer. La grande ambizione" di A. Segre. Recensione di R. Valdrè

Leggi tutto