di David Robert Mitchell, USA, 2014,100 min.
recensione a cura di Angelo Moroni
Trama: dopo la prima notte d’amore consumata sull’automobile del suo occasionale fidanzato, la 19enne Jay si ritrova legata su una sedia rotelle in un luogo desolato che sembra il parcheggio di una fabbrica dismessa. Il ragazzo le spiega con calma che con quel primo rapporto sessuale egli ha in verità generato un vero e proprio Calvario che Jay dovrà conoscere, giorno dopo giorno: si tratta di una specie di subdola malattia, sessualmente trasmessa. Solo che non produce sintomi fisici, bensì l’evocazione di una spaventosa entità che la seguirà ovunque, perseguitandola attraverso visioni di persone conosciute e sconosciute: queste “persone” cercheranno di raggiungerla per ucciderla. Se Jay non riuscirà a trasmettere lei stessa questa malattia, attraverso un nuovo amplesso, rischierà la morte. Intanto Jay comincia a vedere strani personaggi muoversi verso di lei, ad esempio sua nonna, defunta da anni, che viene a visitarla mentre sta seguendo una lezione…
L’adolescenza incarna un sentire profondo che, quando si fa presente, va a costituire il tessuto emotivo con cui è ordita la cesura fra giovinezza ed età adulta: è il sentire, in statu nascendi, dell’inevitabilità e dell’imprevedibilità del cambiamento, della decadenza, dell’incertezza nell’incontro con l’oggetto amato, della morte. Uno dei principali meriti di “It Follows”, ultimo film dello statunitense David Robert Mitchell, consiste nella sua capacità di rappresentare in modo molto poetico e intenso questo senso di caducità di cui è intrisa l’adolescenza. Mitchell porta a termine tale rappresentazione attraverso un suo originale ridisegnare i confini, la forma, la struttura identitaria potremmo dire, del classico genere cinematografico teen slasher. Tutto l’allestimento sembra fatto regredire con apposita mano nei lontani anni’80; tutti i movimenti di macchina sono ciò che di più lontano possiamo trovare rispetto ai movimenti ipomaniacali che siamo abituati a vedere oggigiorno in un qualsiasi film d’azione estivo di marca hollywoodiana. Tutto il mood solitario, inverosimilmente, tragicamente autisticoide del gruppo di adolescenti che ci viene presentato, è invece ciò che di più vicino possiamo trovare in uno slasher delle origini, a partire da “Venerdì 13” (Sean S. Cunnigham, 1980) per passare al “My Bloody Valentine” di G.Mihalka, 1981, per procedere ai vari “Halloween” , per poi giungere almeno al primo “Nightmare on Elm Street” (1984) di Wes Craven, notoriamente innovatore del genere. Tutto questo “citato”, e molto altro ancora si trova e si ritrova in “It Follows”, ma come se fosse fatto risplendere di nuova luce, di altri contrasti, di più profonde, più sofferte sfumature che ci fanno intravedere sottotesti pluristratificati, di natura psico-sociologica, ma anche filosofica e letteraria (si veda la lunga citazione da “L’Idiota” di Dostoevskij, letta da una giovane del gruppo dei protagonisti).
“It Follows” sembra infatti un’opera di restauro di tutto il Cinema Perturbante visto fin qui, un restauro coadiuvato da un direttore della fotografia, Mike Gioulakis, molto ispirato. Gioulakis è un artigiano della palette cromatica molto bravo, basti solo osservare bene la sequenza che dall’interno buio e polveroso del capanno sulla spiaggia, ci porta fuori, in quel sole abbagliante, in quel cielo azzurro punteggiato da tranquille nuvolette bianche, mentre la ragazza morta, di bianco vestita segue inesorabile Jay verso la sua automobile. Questa lunga ed inquietante sequenza mi ha ricordato alcuni importanti fotografi che hanno lavorato con Terrence Malick, (penso a Jack Toll, ma soprattutto all’irripetibile Tak Fujimoto, oppure a Stevan Larner e Brian Probyn).
La fotografia di Gioulakis ricorda a tratti “La rabbia giovane” (1973) di Malick, come se “It Follows” fosse il negativo dell’opera di Malick. Là c’era “rabbia giovane”, quindi ancora ribellione, spirito incendiario, esprit iconoclasta, “sogno non sognato” (Ogden, 2008) che cerca una tela su cui essere dipinto, anche con una certa “violenza delle emozioni” (Civitarese, 2011). Qui, al contrario siamo di fronte allo spegnimento di ogni fuoco. Siamo posti davanti ad oggetti/soggetti carbonizzati i cui resti svolazzano nell’aria in un cielo vuoto. Considerevole a questo proposito il primo piano di Jay allo specchio mentre si trucca per uscire con il suo primo ragazzo: uno sguardo pieno di malinconia, ma ancora ingenuamente velato dall’estrema speranza nella realizzazione, appunto, di quel suo “sogno non sognato”: il sogno di avere per sè il suo “ragazzo” (e basta ascoltare con attenzione come pronuncia, molte, molte volte quella parola “ragazzo”. Sembra una parola che la avvolge sensorialmente, con cui si coccola, si consola, nella quale riversa tutta la sua anima di adolescente senza futuro).
E’ infatti il futuro senza orizzonte di senso abitato da Jay, che viene ben presto a chiedere il conto: “it follows”. E’ il futuro, vuoto, o per meglio dire “pieno” di senso di morte, caducità e persecuzione, che “ti segue”. E’ un futuro che così appare perché le generazioni precedenti hanno smesso di costruirlo, di coltivarlo. Ed è questo il futuro che gli adulti presentano davanti agli occhi ancora pieni di speranza dei loro figli: un domani angusto, corroso, un non-luogo affettivo fatto di marciapiedi grigi pieni di crepe nel cemento che nessuno aggiusta, di erbacce che nessuno taglia, di tempo sospeso come quello di Godot. E’ evidente che il tradimento di ogni aspettativa, incarnata emblematicamente dal desiderio di Jay, da parte delle generazioni precedenti, si trasforma così in persecuzione. Guarda caso una persecuzione simbolizzata dal contatto sessuale, che è poi il modo con cui le generazioni continuano a perpetuare la loro storia, generando ancora, sempre figli, cui proporre altri vuoti sogni di futuro. L’atto sessuale, in questo film non produce prole, ma mostri che uccidono coloro che si sono avvicinati a quel tipo di contatto, potenzialmente generativo. L’adolescenza è un processo, si suol dire in Psicoanalisi di “soggettivazione” (Cahn, 2000), una soggettivazione che ha bisogno di un Altro, di un Testimone, per potersi dare (spesso questo testimone è uno Psicoanalista, un Terapeuta, molto più che un genitore, a volte): il processo di soggettivazione ha la mira di arrivare ad un Soggetto. Ma – questa sembra essere la radicale domanda che ci pone Mitchell con il suo film – qual’è il posto di un giovane Soggetto in questo mondo? Qual’è il mondo che consegneremo alle nuove generazioni, quali i valori, quale l’Ordine Simbolico-Affettivo, quale l’ambiente, quali qualità di vita e di relazione?
Ma tornando agli aspetti tecnici, fotografia (Mike Gioulakis) e sonoro (Richard Vreeland), diventano due aree centrali, due assi portanti, vera tela e cornice di ottima, ineguagliabile qualità perché il pittore Mitchell possa solo pensare di muovere il suo pennello-macchina da presa lungo il corso di tutta la pellicola. Senza questa tela (fotografia e sonoro) Mitchell non sarebbe probabilmente riuscito nell’efficacia rappresentativo-estetica del mood e dello spleen adolescenziali che riesce così bene a rappresentare nel film.
Aldilà degli intenti commerciali di questo lungometraggio, è piuttosto evidente infatti che la mira estetico-filmica di Mitchell sia innazitutto quella di disegnare un gruppo di adolescenti soli, abbandonati a se stessi, fragilissimi e quasi bambini più che adolescenti in quanto tali, riuniti insieme in una sorta di comunanza auto-consolatoria mentre il Tempo li insegue inesorabile per falciare di netto le loro speranze.
In alcuni punti del film infatti questa “ingenuità”, sembra ricercata maniacalmente da Mitchell, al punto da fa sembrare Jay e i suoi amici una sorta di gruppetto da cartone animato tipo “Scooby-Doo”, una enclave che sta assieme per provare a sconfiggere il mostro di turno. E’ un’accentuazione ricercata da Mitchell, che guida un cast perfetto alla bisogna (soprattutto un Keil Gilchrist che nella sequenza finale della passeggiata mano nella mano con Jay si trasfigura in un personaggio post-apocalittico, tragico, alla Cormac McCarthy). Ragazzi soli, perseguitati da fantasmi che derivano dall’assenza delle generazioni precedenti, dall’assenza di caregivers adeguati, di uno sguardo che li sappia accogliere, che li sappia davvero capire e amare.
Dove sono infatti gli adulti in questo film?
Gli adulti sono “eccentrici”: tutto lo script li pone come in una lontana periferia del soggetto adolescente e delle sue vicissitudini. Si tratta di qualche sparuto poliziotto di colore che trova per caso una borsetta nel luogo dove Jay ha avuto il suo primo rapporto. Si tratta dell’infermiera inquadrata velocemente mentre la nostra eroina è in ospedale con il braccio ingessato. Sono adulti sfocati, lontani, che Mitchell appositamente non inquadra.
“It Follows” è un film denso di rimandi ad un Perturbante inteso come significante sedimentativo ricorrente nel trapasso generazionale che investe l’adolescenza vista in quanto emblema della fragilità dell’essere umano, della sua consustanziale hilflosigkeit, così drammaticamente evocata e accentuata oggigiorno dai traumatici eventi terroristici che stanno invadendo città e comunità molto vicine a noi (e che coinvolgono spesso “kamikaze” adolescenti cresciuti in banlieues non dissimili dai quartieri degradati della provincia americana abitati da Jay e dai suoi amici) . E’ anche per questi motivi che Mitchell sceglie come location il luogo dell'”antico” filmico perturbante, il luogo dell’idioma nascente della mitopoiesi horror adolescenziale, il luogo del più arcaico teen-slasher, ovviamente, poiché sa che solo quel sottogenere è disseminato di tracce mnestiche preziose per capire – a partire da un passato mai davvero, completamente “pensato”, “sognato” – il presente in cui versa lo stato mentale e sociale delle nuove generazioni. Tracce mnestiche che hanno bisogno di un “sognatore” (lo spettatore, cioè noi) per essere colte, ripensate e trasformate. Il Cinema, in fondo, ha questa funzione. Il Cinema Perturbante in particolare, soprattutto relativamente alla comprensione e all’ascolto profondo delle vicende adolescenziali; un tipo di Cinema, quello perturbante, che si fa cioè oggetto estetico privilegiato nel porre al centro della sua attenzione l’adolescenza come dimensione-spia dei tempi che viviamo.
Luglio 2016