Cultura e Società

“Io capitano” di M. Garrone. Recensione di R. Valdrè

6/09/23
"Io capitano" di M. Garrone. Recensione di R. Valdrè

Parole chiave: Desiderio, Migranti, Pulsione anarchica

Autore: Rossella Valdrè

Titolo: “Io capitano”

Dati sul film: regia di Matteo Garrone, Italia, Belgio 2023, 121’, Leone d’Argento per la Miglior Regia e Premio Mastroianni per miglior attore esordiente

Genere: drammatico

“Siamo sempre lo straniero di qualcun altro”

(Tahar Ben Jelloun)

Non occorre recensire “Io capitano”; va semplicemente visto. Vi vanno portate le scuole, come fu per “Il pianista” di Polanski nel 2002. A questo film in effetti, a “Il pianista”, correva la mia mente guardando “Io capitano”: la narrazione di un moderno olocausto.

Come nel film di Polanski, anche in quest’ultima opera di Matteo Garrone il risultato così straordinario è dovuto non solo alla forza dei fatti in sé, ma all’aver saputo sapientemente intrecciare la profonda denuncia sociale con una vicenda personale esemplare. Si vedono non pochi documentari sui migranti, ma anche chi non ne sa nulla o se ne vuole tenere lontano entra immediatamente in quel mondo attraverso la magia del cinema in “Io capitano”. Fatti e luoghi ben documentati, insieme alla poetica cinematografica, con ottimi attori, musiche, luce, sceneggiatura perfetti.

Mentre il pianista era un personaggio realmente esistito, i protagonisti qui sono altamente verosimili, le loro storie sono tratte dai racconti di molti emigrati a cui il regista si è ispirato nelle diciotto settimane di lavorazione del film tra l’Europa e l’Africa.

Due cugini sedicenni, Seydou e Moussa, decidono di lasciare la loro terra, il Senegal, per raggiungere l’Europa: più indeciso l’uno, Seydou, più convinto l’altro, Moussa, i due ragazzi, privi di reali conoscenze e con l’unico “bagaglio culturale” di ciò che hanno visto al cellulare, si imbarcano per questa tragica odissea. Il lunghissimo, allucinante viaggio li vede incontrare, insieme a molti altri — uomini, donne e bambini — terrore, umiliazione, violenza e morte ad ogni tappa della loro strada; il poco denaro che avevano racimolato viene derubato, i corpi straziati nelle torture delle prigioni di Tripoli, veri campi di concentramento. Molti muoiono durante il cammino, alcuni miracolosamente sopravvivono.

Il film sfugge alla retorica secondo cui l’immigrato non ha comunque niente da perdere, il posto dove andrà sarà sempre migliore di quello che lascia; non è così. Viene lasciata, nel loro caso, una terra povera ma dignitosa, comunità portatrici di saldi legami culturali e affettivi, tanto che sarà proprio quella capacità di essere tra loro solidali la vera salvezza. Il miraggio de “Leuropa”, come doveva essere per i nostri nonni emigrati “Lamerica” (bellissimo film di Gianni Amelio del 1994), non corrisponderà affatto ai loro sogni ingenui, e sarà molto probabilmente fonte di un’inestinguibile nostalgia.

Ma, altro fatto paradossale, da un certo punto in poi — anche se una volta compresa la realtà si pente e vuol tornare indietro — il migrante viandante è costretto a proseguire, a passare da pullman a carro, da estenuanti camminate nel deserto a lavoro sfruttato per i trafficanti: non si torna indietro, la nostalgia resterà un luogo interiore.

Da un certo punto in poi, il viaggio è affidato al giovane Seydou, a cui il titolo fa riferimento.

Nelle situazioni estreme, come scrive la psicoanalista franco-russa Nathalie Zaltman (1997), può insorgere nell’uomo, o almeno in alcuni (i “salvati” come disse Primo Levi), un’inattesa forza ribelle, una pulsione a non aggregarsi al Male, a non aderirvi. In termini psicoanalitici, una pulsione slegante che lei interpreta come un lato positivo, altamente utile in queste circostanze di pulsione di morte, a cui dà il nome di “pulsione anarchica” (pulsion anarchiste). Saper slegare, staccarsi, si rivela in certi momenti estremi fondamentale: “Sarà questa pulsione anarchica a intervenire, in condizioni estreme, per sostenere la vita” (Zaltman, 1997, 67).

Il giovane Seydou non aderisce, non abbandona i deboli e i vinti tra i suoi compagni; intelligenza ed estrema resilienza, capacità di lavorare, di osservare e tacere, ne fanno un piccolo, forse non così raro eroe del nuovo olocausto, quello che si consuma sotto i nostri occhi, a lato dei nostri occhi, sotto l’inedia di governi stolidi, di ONG inesistenti. Forse Seydou sopravvive, non solo come corpo ma come psiche, per aver mantenuto la capacità di immaginare e di sognare, di allucinare il desiderio quando tutto manca.

Per tutto questo abbiamo bisogno del cinema; di questa forma di nuovo, poetico Neorealismo che ci porta in realtà distanti e vicine, terribilmente vicine.

Bibliografia

Zaltman N. (1997): La pulsion anarchiste. In: De la guérison psychanalitique. Paris, PUF.

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