Parole chiave: Eros, Thanatos, Slegamento, Umanità
Autore: Patrizia Santinon
Titolo: “Io capitano”
Dati sul film: regia di Matteo Garrone, Italia, Belgio, 121’, Leone d’Argento per la Miglior Regia e Premio Mastroianni per miglior attore esordiente
Genere: drammatico
“Io Capitano” di Matteo Garrone, racconta l’avventura adolescenziale di Seydou e Moussa, che decidono di partire dal Senegal per raggiungere l’Europa, le cui griffes del lusso vestono e la cui musica ascoltano, adeguandosi con una vernice di superficie a un repertorio iconografico e sonoro fortemente idealizzato.
Si troveranno ben presto ad affrontare il dilemma di quale strada scegliere, vincendo la tentazione di cedere agli impulsi distruttivi, allo slegamento di Thanatos rispetto alla spinta al legame di Eros come “tous les mineurs aspirants, errants, rejoignant, mandatés, exploités, exilés” (“tutti i minori “aspiranti”, erranti, che si muovono per ricongiungimento, mandati dai familiari dunque migranti per procura, sfruttati, esiliati” (traduzione dell’autore), come scrivono Etiemble e Zanna (2013,12-13).
Nel dialogo intimo e severo nella lingua materna, il wolof, con la madre, dalla quale Seydou fatica a separarsi e alla quale vorrebbe consegnare la verità del suo progetto migratorio, il bambino diventa un adolescente che ha un progetto suo, capace di sostenere anche in disaccordo con l’adulto che lo ha nutrito.
Seydou e il cugino partono con le radici dell’albero della vita ben affondate nella terra des ancêtres (gli antenati), avendone ricevuto il permesso con una visita rituale al cimitero.
La Telemachia di Seydou è un racconto di morte nell’attraversamento del deserto, di tradimenti, di tortura e disumanizzazione progressiva dei compagni di viaggio, una metamorfosi come nel paese dei balocchi promessi che è il deserto di onde del Niger e della Libia.
Seydou non perde mai la sua umanità: nel cammino attraverso il deserto una donna si accascia e lui si ferma, ancora capace di sentire la sua voce. Gli altri viaggiatori hanno perso con il loro nome la speranza di restare umani. Quando riprende la sua marcia allucina quella donna, per mano a lui ma in volo, come nella passeggiata di Chagall.
Ha incontrato nel suo viaggio predatori e carcerieri della mafia libica: nella violenza e nella viltà dell’odio si esprime il rifiuto allucinatorio del lutto.
Così anche Seydou allucina la madre proprio quando si sente sconfitto e solo: la perdita dell’oggetto amato è sostituita dalla sua presenza in un ritorno onirico alla casa materna guidato dal marabout. Ecco che si riscopre capace di fidarsi dell’Altro a partire dallo sguardo donativo della madre su di lui e dall’humus della madre terra, il Senegal, da cui è partito con l’ aspirazione di portare in Europa la sua musica. La colonna sonora di Andrea Farri contiene alcuni inediti cantati proprio dai due protagonisti del film.
L’altro cui affidarsi è un migrante più adulto e paterno con cui riscopre un’area transizionale di creatività che gli consente di sopravvivere in condizione di prigionia: costruiscono insieme, improvvisandosi muratori, un muro di cinzione e una fontana nel deserto per guadagnarsi la libertà.
Giunto a Tripoli Seydou si separa dall’uomo che lo ha salvato dal martirio libico e che gli ha fatto da padre e aspetta il ritorno di Moussa con cui ha costruito il progetto di viaggio. Lo ritrova ferito e pur di offrirgli la possibilità di essere curato in un ospedale italiano, perchè a Tripoli nessuno metterebbe le mani su un uomo nero, si assume la responsabilità di “portare” la barca – balena che porta stipati nella sua pancia i tanti disperati senza più voce attraverso il Mediterraneo così da metterli in salvo.
Ecco il valore della vita e l’assunzione di responsabilità Lévinas (1990,106) scriveva: “Io sono nella sola misura in cui sono responsabile dell’altro”.
Il bambino che diventa uomo come nel Pinocchio dello stesso Garrone e nello spettacolo teatrale Pinocchio nero di Marco Baliani (che ha lavorato coi ragazzi di cui ha raccontato le metamorfosi) diventa “Io, capitano” in un viaggio che ancora non è finito alla fine precisa del film, perché, come dicono i griot africani, c’è un solo luogo dove andare veramente, e quel luogo è il Tempo.
In una scena di grande concitazione un gruppo di migranti per lo più maschi, stipati nel barcone che è Seydou a guidare, invocano Allah come padre. È Seydou a suggerire questa tifoseria proprio quando gli è chiaro che la volontà di Dio non può determinare il corso della storia, che la storia è fatta dagli uomini. Il padre della creazione muore come il padre di Seydou lasciandogli la responsabilità di essere uomo nella sua storia, ben diverso dal padre della religione, il padre tappa-buchi come direbbe Bonhoeffer (2002).
Seydou, vittima di tortura che lascia sul suo bel volto infantile una cicatrice indelebile, rinuncia alla via breve della violenza e sceglie, proprio nello spirito wolof del Jam (onore) e del Teranga (onestà individuale), la via della parola di conforto per l’altro, dei gesti caritatevoli del quotidiano, del gesto eroico di capitano che sfida il Mediterraneo per trovare una terra promessa: Marsala come una nuova Mégal Afrique.
Bibliografia
Bonhoeffer D. (2002). Resistenza e resa. Brescia, Queriniana.
Etiemble A., Zanna O. (2013) Des typologies pour faire connaissance avec les mineurs isolés étrangers et mieux les accompagner. In European Social statistics, Edition 2013.
Levinas E. (1990). Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità. Milano, Jaca Book
Settembre 2023