
Parole chiave: identità, alterità, robot, soggettività
Autori: Chiara Buoncristiani e Tommaso Romani
Titolo: “I’m not robot”
Dati sul film: Victoria Warmerdam, Olanda, 2023, 22’, piattaforma in streming YouTube – The New Yorker screening room
Genere: Drammatico
Tutto comincia con una bellissima cover di “Creep” dei Radiohead.
“I’m not a robot”, il film vincitore nella categoria ‘miglior cortometraggio’ agli Oscar 2025, parte da questo “essere creep”, cioè mostro non umano, per catapultarci nell’enorme questione sociale e culturale che sta scuotendo arte, scienza, filosofia e – come sappiamo – anche la psicoanalisi.
Come facciamo a sapere di essere “umani” se non attraverso il prossimo? E se l’Altro che ci ha cresciuto e toccato, con-tattato, anziché un altro umano fosse non-umano?
Scritta e diretta da Victoria Warmerdam, l’opera segue un filo narrativo solo apparentemente distopico. I concetti di artificiale e ibrido, autocoscienza e intersoggettività, sono messi in tensione fino a essere re-interpretati a partire da un rovesciamento radicale del senso di “autenticità”.
L’opera prende spunto da un semplice test CAPTCHA: la casella “Non sono un robot” che i nostri mezzi di significazione quotidiana utilizzano prima di consentirci l’accesso a contenuti digitali.
Cosa succederebbe se scoprissimo che ciò che sta creando le nostre soggettività incarnate, fosse “autenticamente artificiale”? Come se ci fosse una sim-poiesi ibrida che avvolge e svolge l’autopoiesi umana.
Come è stato notato, non è un caso che la protagonista del film, Lara, sia una donna, cioè un ‘non uomo’. Come dire: da sempre nasciamo dalla relazione tra uomo e ‘non uomo’: attraverso una sincronizzazione affettiva, sensoriale, materiale e semiotica.
Lara si trova di fronte a un paradosso: la sua incapacità di superare un test progettato per distinguere l’umano dalla macchina la costringe a interrogarsi sulla propria ‘natura’. Un test che segue la logica della metafisica e il principio di non contraddizione. Qualcosa che la psicoanalisi ha contribuito a scardinare grazie alla descrizione dei processi inconsci: un’azione banale come un clic diventa un dramma ontologico e mostra come i criteri attraverso cui definiamo l’umanità siano flebili e arbitrarie convenzioni.
Il pensiero femminista, con la decostruzione di categorie rigide e di apparenti evidenze biologiche, ha rivelato l’illusione dell’essere donna come dato naturale. Per prima Simone De Beauvoir nel testo aurorale “Il secondo sesso” diceva: “Donna non si nasce, lo si diventa. (…) “Unicamente la mediazione altrui può assegnare a un individuo la parte di ciò che è Altro” (De Beauvoir, 1949).
Senza svelare il finale, Lara compie un gesto decisivo per dimostrare la propria umanità e finisce per riconoscere il proprio autentico non corrispondere al canone di “umanità”.
Il film si muove tra etica e tecnologia, ipotizzando che l’autocoscienza non sia un’essenza concreta ma una proprietà emergente nella connessione di materie plurali, fatte di segni, sangue, carne e anche algoritmi: purché poste in connessione e dialogo.
È interessante notare come, di recente, alle riflessioni femministe si siano aggiunte teorie che, a partire anche dal contributo della psicoanalisi, hanno analizzato, criticato e decostruito ciò che per millenni abbiamo pensato fosse l’Uomo, “misura di tutte le cose”.
Tra queste, vale la pena qui ricordare la ‘Crip Theory’ (McRuer, 2023), citata piuttosto esplicitamente dal film con la canzone Creep della colonna sonora. La teoria ‘crip’ esamina come sono composte le identità corporee e sessuali dominanti e marginali, e le modalità in cui la disabilità e la stranezza sconvolgono e riscrivono le soggettività, per ricordarci che un altro mondo è possibile.
È plausibile essere un androide (o un disabile al lavoro, un crip) e ignorarlo? Ancora una volta, è l’ipotesi del film, è il dialogo tra entità ibride, che può dischiudere la consapevolezza di essere ciò che si è. Ecco allora che il dilemma etico e ontologico si contorce: se ciò che ci definisce è la percezione di noi stessi, cosa accade quando questa percezione è mediata da un altro robot o comunque non umano? E se, infine, scoprissimo che la donna, come il disabile, lo strano, il nero e l’animale, è da sempre un ‘non umano’ in relazione di all’universale di ‘Uomo’?
Inutile ricordare come questa sia oggi una questione da agenda politica, questa sì distopica, visto che è la più classica delle accezioni di Uomo ad aver partorito le tecnopolitiche necessarie per implementare l’agenzia DOGE, diretta da Elon Musk. Attraverso le scelte categoriali di un programma informatico che stabilisce l’inefficienza dei lavoratori non conformi stanno avvenendo licenziamenti a pioggia.
Un filo unisce questo film a “Eva Futura” (Villiers de l’Isle-Adam, 1886), opera profondamente misogina che però sostiene che non è la macchina, l’androide, l’automa a dover riconoscere la propria alterità, ma l’uomo stesso.
È l’uomo che attraverso l’ostinata hybris di definire e manipolare il femminile (il crip) attraverso la sua percezione, è chiamato a riconoscere non solo i propri limiti ma anche la propria mostruosità.
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De Beavoir, S. (1949) Il secondo sesso, Il saggiatore, Milano, 1961
McRuer, R. Teoria Crip, Odoya, Milano, 2023
Villiers de l’Isle-Adam, P. A., (1886) Eva Futura, Marsilio, 2008